È arrivata la resa dei conti per Mohammad Bin Salman?

Reporters sans frontières denuncia il principe saudita Mohammad Bin Salman: è accusato di crimini contro l’umanità per la persecuzione dei giornalisti e l’omicidio di Jamal Khashoggi.


Lo scorso 1 marzo Reporters sans frontières (RSF), Ong francese che dal 1985 promuove la libertà di stampa nel mondo, ha presentato una denuncia per crimini contro l’umanità contro il principe ereditario Mohammad Bin Salman, il suo stretto consigliere Saud Al-Qahtani e altri tre alti funzionari sauditi. La denuncia è stata presentata dinanzi alla Corte Suprema di Karlsruhe, tra i più importanti tribunali tedeschi. La scelta non è casuale. Il sistema legale della Germania infatti garantisce la giurisdizione penale su crimini internazionali commessi all’estero e senza collegamenti con il Paese.

Il 24 febbraio, grazie al principio legale della giurisdizione universale, un tribunale tedesco ha condannato un ex membro dei servizi di sicurezza del presidente siriano Bashar al-Assad per favoreggiamento della tortura di civili. Si tratta di una sentenza storica, la prima per crimini contro l’umanità perpetrati durante la decennale guerra civile siriana. Inoltre, come sottolineato dalla stessa RSF, il governo tedesco è in prima linea nella difesa della libertà di stampa e nella protezione dei giornalisti in tutto il mondo.

Nel documento di 500 pagine l’Ong accusa il regime wahabita di Ryad di porre in essere una sistematica e diffusa persecuzione ai danni dei giornalisti, i quali sono vittime di uccisioni, tortura, violenza sessuale, coercizione, sparizione forzata, privazione illegale della libertà fisica. L’obiettivo del governo saudita è quello di piegare la stampa alla sua volontà, intimando, punendo e mettendo a tacere chiunque provi a ribellarsi esprimendo pubblicamente il proprio dissenso contro l’autoritaria politica statale. 

L’Arabia Saudita ha una lunga tradizione in materia di oppressione. «La monarchia assoluta dell’Arabia Saudita limita quasi tutti i diritti politici e le libertà civili. Non vengono eletti funzionari a livello nazionale. Il regime si basa su una sorveglianza pervasiva, sulla criminalizzazione del dissenso, fa appello al settarismo e all’etnia, e sulla spesa pubblica sostenuta dai proventi del petrolio per mantenere il potere; le donne e le minoranze religiose si trovano ad affrontare un’ampia discriminazione nella legge e nella pratica; le condizioni di lavoro della grande forza lavoro espatriata sono spesso sfruttate». Questo è quanto rilevato dalla Freedom House, Ong che conduce attività di ricerca e sensibilizzazione su democrazia, libertà politiche e diritti umani, nel suo ultimo report.

Secondo fonti autorevoli, negli ultimi anni il governo ha smantellato e criminalizzato l’opposizione politica, bandendo la presenza dei partiti politici e arrestando i dissidenti. Risale poi al 2008 l’istituzione di un Tribunale speciale, chiamato sulla carta a giudicare reati di terrorismo ma che, secondo quanto scoperto da Amnesty International, non sarebbe altro che l’ennesimo strumento utilizzato dal governo per ridurre “al silenzio il dissenso”. «Il governo saudita sfrutta il Tribunale speciale per dare una falsa idea di legalità sull’uso distorto delle norme antiterrorismo per ridurre al silenzio chi lo critica».

Ogni fase dei procedimenti di fronte al Tribunale speciale è segnata da violazioni dei diritti umani, quali il negato accesso alla difesa, la detenzione senza contatti col mondo esterno e le condanne emesse solo sulla base di ‘confessioni’ estorte con la tortura», ha dichiarato in una nota ufficiale Heba Morayef, direttrice di Amnesty International per il Medio Oriente e l’Africa del Nord. 

Attivisti dei diritti umani, scrittori, esponenti politici dell’opposizione, giornalisti sono i principali nemici del regime saudita e in quanto tali sono finiti nel mirino giudiziario.

Ad oggi sono 34 i reporter detenuti senza alcuna ragione ufficiale. Tra questi lo scrittore Raif Badawi, condannato a 10 anni di reclusione nel 2014 e mille frustate per i contenuti pubblicati sul suo blog.

Per il segretario generale della RSF, Christophe Deloire, «i responsabili della persecuzione dei giornalisti in Arabia Saudita, compreso l’omicidio di Jamal Khashoggi, devono essere ritenuti responsabili dei loro crimini».

Deloire auspica dunque che alla denuncia segua una seria indagine delle autorità competenti volta ad  accertare la verità e a emettere mandati di arresto contro i responsabili di questi crimini, tra i quali figura anche l’intoccabile Mohammad Bin Salman. Proprio il principe saudita è al centro del rapporto declassificato della CIA sull’uccisione di Khashoggi, pubblicato solo pochi giorni prima la denuncia di RSF. Il rapporto, risalente al 2018 ma reso noto solo adesso, ha confermato ciò di cui  tutto il mondo era già a conoscenza. Dietro lo spietato omicidio del giornalista del Washington Post, avvenuto nel 2018 nel consolato saudita a Istanbul, c’è Mohammad Bin Salman.

Il principe ereditario avrebbe ordinato e approvato l’intera operazione per uccidere il giornalista dissidente. Nel rapporto si afferma apertamente che «basiamo questa valutazione sul controllo del processo decisionale nel Regno da parte del principe ereditario, il coinvolgimento diretto di un consigliere chiave e membri del dettaglio protettivo di Mohammad Bin Salman nell’operazione e il sostegno del principe ereditario per l’uso di misure violente per mettere a tacere i dissidenti all’estero, incluso Khashoggi». Il rapporto della Cia conferma dunque quanto già sostenuto nel 2019 dalla relatrice speciale delle Nazioni Unite, Agnes Callamard, ossia che «Khashoggi è stato vittima di un’esecuzione deliberata e premeditata, un omicidio extragiudiziale di cui lo Stato dell’Arabia Saudita è responsabile ai sensi del diritto internazionale dei diritti umani».

In questi anni le autorità saudite hanno riconosciuto ufficialmente la commissione materiale dell’omicidio da parte di agenti sauditi ma hanno continuato a negare qualunque coinvolgimento in quella che hanno definito “un’operazione canaglia”. Alcuni agenti sono stati utilizzati da capro espiatorio e sono stati perseguiti e processati con processo segreto che, come la stessa RSF sottolinea, ha violato tutti i principi del giusto processo. Rimangono impuniti i veri mandanti, le menti dell’operazione, coloro che avrebbero tratto concreto vantaggio dalla morte del giornalista. E la politica internazionale, in particolare quella statunitense, non sta collaborando affinché venga fatta giustizia.

Nonostante l’ennesima conferma del coinvolgimento di Mohammad Bin Salman sia arrivata dalla stessa intelligence statunitense, l’amministrazione Biden ha approvato restrizioni sui visti di diversi funzionari sauditi (il cosiddetto “divieto Khashoggi”) ma rifiuta di punire il principe ereditario. Durante un’intervista alla ABC News il presidente Biden ha sostenuto che agire contro il reale saudita sarebbe diplomaticamente senza precedenti per gli Stati Uniti, presupponendo di conseguenza che i rapporti tra Stati vengano prima della giustizia, del rispetto dei diritti umani, della libertà di stampa. Decisamente non un cambio di rotta rispetto all’amministrazione precedente. 

Christian Mihr, portavoce nazionale di RSF e colui che ha depositato l’atto in tribunale, ha spiegato che i giornalisti detenuti in Arabia Saudita «rappresentano a pieno titolo un gruppo della popolazione perseguitato per l’attività che svolge. Il numero di professionisti imprigionati da Ryad resta tra i più alti al mondo. In pratica ai media viene impedita la funzione di controllo indipendente e  l’omicidio Khashoggi resta il caso più sintomatico. Non solo è stato attirato in una trappola, torturato e smembrato, ma il crimine è stato commesso in una sede diplomatica. Se nemmeno un reato così grave verrà perseguito allora i cronisti rimarranno un facile bersaglio per i dittatori senza scrupoli».


Immagine in copertina di U.S. Secretary of Defense

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