Fico d’India, il frutto di Sicilia tra storia, leggenda e innovazione

Immaginando un tipico scenario siciliano è impossibile non pensare ad un belvedere con le pale di fico d’India che fanno da cornice. Nel corso dei secoli questa pianta tropicale si è imposta come simbolo dell’Isola nostrana, e porta con sé curiosità, leggende ed interessanti prospettive per il futuro. 


Sicilia, terra di miti e leggende: da quelle più famose, come la storia delle teste di moro o della vecchia dell’aceto, a quelle meno note, come il mito della bellissima Principessa Sicilia o il terrificante Sugghiu che vive nelle paludi, l’Isola si conferma un tesoro folkloristico che lascia raccontare il suo passato all’immaginazione del suo popolo. Un’oasi fertile e generosa in cui sole, mare e terra s’incontrano, ed è proprio l’unione di tutti questi elementi che rendono l’Isola ancora oggi musa di artisti e poeti, costellata di storie, usanze e leggende. 

A colorare gli scenari siciliani troviamo le immancabili pale di fichi d’India, alzate a simbolo indiscusso della Sicilia (e non solo): la pianta di fico d’India (Opuntia ficus-indica) si trova perfettamente a suo agio nel clima mediterraneo, resistendo senza problemi al caldo afoso siciliano, non necessita di particolari cure e cresce anche nei terreni più ostili. Nel corso della storia ha portato fortune “miracolose” alle terre ospitanti, e continua a portare benefici in progetti interessanti. 

Dal Messico alla Sicilia

Il fico d’India giunse in Europa solo nella seconda metà del cinquecento grazie agli spagnoli, e tradizione vuole che sia stato lo stesso Cristoforo Colombo a portare i frutti nel Continente, essiccati al sole, come era usanza delle popolazioni indigene del periodo. 

Secondo la leggenda, gli antichi Aztechi erano soliti chiamare questo frutto “Nopalli”, e già allora era considerato sacro ed emblema della loro civiltà. Durante un viaggio nelle aride terre del Messico settentrionale in cerca di un luogo fisso, videro un’aquila appollaiata su uno strano cactus, e decisero che in quel punto avrebbero costruito nel 1325 la loro capitale, “Tenochtitla”, che significa “terra dove abbondano i frutti del cactus che si erge sulla pietra”. Oggi infatti il fico d’India, una delle piante più importanti dell’economia mesoamericana, appare nello stemma della Repubblica Messicana, sotto le zampe dell’aquila (simbolo del sole e della vita) vittoriosa su un serpente (simbolo di morte).

Probabilmente a introdurre questo tipo di coltivazione in Sicilia furono i Saraceni intorno all’anno 827, o successivamente gli arabi dopo la loro cacciata dalla Penisola Iberica. È infatti grazie alla facilità dei rapporti politici e commerciali che legavano in quel periodo la Spagna alle zone mediterranee, che le prime regioni dove arrivò questa nuova specie furono proprio Africa e Sicilia, territori in cui la pianta trovò un ambiente favorevole alla sua espansione.

Il miracolo siciliano de “lu peri di ficurinnia” 

Importata come pianta ornamentale, e nonostante i fiori colorati, l’aspetto spinoso e bizzarro dell’Opuntia destava non poca diffidenza tra contadini e pastori dell’Isola, come testimoniato nelle raccolte del più importante ricercatore e studioso di tradizioni popolari siciliane, Giuseppe Pitrè.

Secondo la leggenda riportata dall’etnologo siciliano, “lu peri di ficurinnia” era una pianta velenosa, portata dai Turchi “senza fede” in Sicilia per distruggere il popolo siciliano. Il buon Dio cristiano, che tanto amava quella terra e chi la viveva, rese i frutti dolcissimi e donò loro proprietà miracolose. 

Per devozione, da allora, nei giorni di vendemmia i contadini mangiano tantissimi di questi frutti la mattina come prima colazione. In verità, questa usanza trae origine dall’antica abitudine del padrone di far lavorare i vendemmiatori a stomaco pieno, cosicché durante la raccolta avrebbero mangiato poca uva. Da qui anche un famoso detto siciliano “Jinchi la panza e jinchila di spini” (riempi la pancia e riempila di spine).

Il fico d’India nella medicina popolare siciliana

In merito alle sue proprietà curative, la tradizione vede il fico d’India (soprattutto le sue pale, più correttamente chiamate “cladodi”) come una pianta quasi miracolosa. Già in Messico le popolazioni indigene sfruttavano le pale come decongestionanti e antinfiammatori, addirittura curavano le ossa rotte. 

La medicina popolare siciliana non tardò a comprendere i benefici curativi di questa nuova pianta: i cladodi crudi, interi, al forno o in poltiglia, erano regolarmente usati per curare contusioni, ecchimosi, infiammazioni e persino per la febbre da malaria.

Tra gli studi di Pitrè, in Medicina Popolare Siciliana, si evidenzia un proverbio ancora oggi conosciuto in diverse parti dell’Isola: Quannu unu s’allavanca di ‘nna nucia. Sucu di pala vecchia, e babbaluci; E si sècuta e ‘un ni resta cuntentu: Cci metti ogliu e cira e erva di ventu (Quando uno precipita giù da un noce; (si deve adoperare) succo di pala vecchia di ficodindia; e se non migliora e non ne resta soddisfatto: adoperi olio con cera ed artemisia)

fico d'india
Flickr – gerlos

La scozzolatura e i suoi “bastardoni”

Seguendo un’antica tradizione, tra maggio e giugno in Sicilia e nelle altre regioni meridionali, si procede alla cosiddetta “scozzolatura”: per sollecitare la pianta alla seconda fioritura autunnale, vengono rimosse manualmente – con dei piccoli colpetti – i frutti appena nati, e le relative nuove pale. 

I fichi d’India che cresceranno qualche mese dopo avranno meno fiori, ma dei frutti tardivi dalle pregiate (e ricercate) caratteristiche organolettiche, e prenderanno il nome di “scuzzulati” o “bastarduna”. 

Secondo una leggenda, il fico d’India scozzolato nasce da una lite tra due contadini confinanti: volendo danneggiare il vicino di terra, il primo dei due (il “bastarduni”) tagliò i fiori sulle piante del rivale, convinto di aver rovinato la sua raccolta per tutta la stagione. Con le prime piogge, però, cominciarono a crescere dei frutti ancora più grossi e succosi, e la fruttificazione fu solo ritardata e portò un maggiore guadagno alla concorrenza. 

Il fico d’India oggi e le prospettive per il futuro

I fichi d’India oggi sono tra i più ghiotti e apprezzati frutti dell’Isola, oltre ad essere un importante alleato nell’economia territoriale. L’agricoltura siciliana negli ultimi decenni lo ha rinominato “petrolio verde”: con le nuove tecnologie sono stati scoperti tantissimi nuovi utilizzi di questa pianta nell’economia circolare (come la possibilità di creare una plastica biodegradabile dalle cladodi, da cui già si estrae la mucillagine per realizzare una particolare pellicola). 

Oggi il fico d’India è un simbolo distintivo del paesaggio siciliano. Il “Ficodindia dell’Etna” è DOP dal 2003. Nel 2012 anche la città di San Cono (CT) ottenne il riconoscimento DOP come prima produttrice di fichi d’India d’Europa, rendendo la Sicilia seconda, a livello internazionale, solo al Messico e all’America.


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