Giochi Olimpici invernali a Pechino all’insegna dei diritti violati
Mancano pochi giorni all’inaugurazione dei Giochi olimpici invernali e pochi sembrano essere interessati alle mani sporche di sangue delle autorità cinesi.
Il 4 febbraio inizieranno ufficialmente i Giochi Olimpici invernali a Pechino mentre in Cina continuano a perpetrarsi gravi violazioni di diritti umani. 243 organizzazioni non governative hanno proposto ai governi di boicottare diplomaticamente i Giochi, da sempre simbolo dell’unione di culture e palcoscenico per accendere i riflettori sulle discriminazioni e le violazioni dei diritti fondamentali.
Questa volta, tuttavia, sembra che si sia cercato di spegnere questi riflettori per nascondere le atrocità commesse giornalmente dal governo cinese, tentando di non dar peso al fatto che quest’anno i Giochi olimpici si terranno in un Paese che tradisce quei principi umanitari su cui le Olimpiadi dovrebbero fondarsi.
Al momento solo Australia, Canada, Giappone, Lituania, Regno Unito e Stati Uniti hanno annunciato che aderiranno al boicottaggio diplomatico rifiutando di inviare i propri rappresentanti alle cerimonie di apertura e chiusura, ma non ritireranno la propria delegazione sportiva.
Il Comitato Internazionale Olimpico si è difeso dalle accuse sostenendo che i propri doveri in tema di diritti umani, enunciati nei Principi guida delle Nazioni Unite su imprese e diritti umani, sono stati comunicati nel 2017 e che quindi non sono applicabili a queste Olimpiadi invernali in quanto l’assegnazione dei Giochi a Pechino è avvenuta prima di quella data, ovvero nel 2015. Una giustificazione alquanto originale che si aggrappa semplicemente a un dato cronologico.
Per quanto riguarda la posizione degli sponsor (tra cui i più importanti Airbnb, Alibaba, Allianz, Atos, Bridgestone, Coca-Cola, Intel, Omega, Panasonic, P&G, Samsung, Toyota, e Visa), essi si sono rifiutati di rivelare quali sono le strategie da loro adottate per rispettare la due diligence delle imprese, ovvero l’impegno di accertarsi e assicurare che nella catena produttiva di competenza non vi siano violazioni di diritti umani e ambientali.
«Il mondo non può ignorare ciò che sta accadendo in ogni parte della Cina: avvocati e attivisti imprigionati solo a causa del loro lavoro, donne sopravvissute alla violenza sessuale punite per le loro denunce, migliaia di condanne a morte eseguite ogni anno, gruppi etnici di religione musulmana sottoposti sistematicamente a internamenti di massa, torture e persecuzioni» – afferma Alkan Akad, ricercatore di Amnesty International sulla Cina.
Dal 2013, infatti, sono innumerevoli gli abusi e violazioni commessi dal governo cinese sotto la presidenza di Xi Jinping. Questi sono stati documentati dalle organizzazioni non governative che tentano di rimanere attive nel territorio, nonostante le forti repressioni: dalle detenzioni arbitrarie di difensori dei diritti umani all’apertura di centri di detenzione e rieducazione per le minoranze etniche e religiose, dalle limitazioni della libertà di espressione al divieto di riunione e associazione, fino all’utilizzo della sorveglianza tramite app.
Secondo il report Human Right Watch 2022, nel 2021 il governo cinese ha intensificato il clima di repressione attraverso la censura dell’informazione, con la promozione delle sole comunicazioni filogovernative, e l’attuazione di politiche maggiormente conservative che minano le libertà fondamentali delle minoranze etniche, religiose, nonché della comunità LGBTQ+ e delle donne.
Per far sì che il riflettori sui diritti non si spengano, Amnesty International ha lanciato la campagna Liberiamo i cinque per chiedere alle autorità cinesi di rilasciare i detenuti che hanno esercitato il loro diritto alla libertà di espressione, a partire dalla giornalista Zhang Zhan, il docente universitario Ilham Tohti, la difensora dei diritti dei lavoratori Li Qiaochu, l’avvocato per i diritti umani Gao Zhisheng e il blogger tibetano Rinchen Tsultrim. La scelta di questi cinque detenuti è emblematica perché essi rappresentano il clima di intolleranza nei confronti di qualsiasi forma di dissenso nei confronti delle autorità.
Ogni storia raccontata da Amnesty mette in luce discriminazioni, abusi e violazioni di diritti e libertà fondamentali che, secondo l’immaginario di una comunità internazionale attenta alle violazioni dei diritti umani, un Paese ospitante dei Giochi olimpici e paraolimpici non dovrebbe mettere in atto. Qui di seguito sono riportate le cinque storie dell’appello promosso da Amnesty International.
Zhang Zhang e le indagini sul Covid-19
Nella Repubblica popolare cinese non è possibile parlare o criticare la gestione della pandemia da Covid-19, pena l’arresto. Secondo l’account Twitter SpeechFreedomCN, tra gennaio 2020 e giugno 2021, sono almeno 663 gli arresti avvenuti a causa di indagini, confronti o tweet relativi al Covid-19. Tra questi vi è anche Zhang Zhan, la giornalista che ha denunciato sui social media le detenzioni arbitrarie di giornalisti indipendenti effettuate a Wuhan da parte dei funzionari del governo cinese e le molestie subite dalle famiglie dei pazienti Covid. A seguito di queste dichiarazioni Zhang Zhan è stata arrestata e condannata a quattro anni di reclusione per la diffusione di notizie false.
Ilham Tohti, colpevole di essere uiguri
Il professore universitario Ilham Tohti, appartenente alla comunità uigura, nel gennaio 2014 è stato prelevato della polizia e, dopo mesi dalla sua sparizione, è stato condannato all’ergastolo per aver fomentato l’odio etnico. Questa accusa, ci racconta Amnesty International nel suo appello, si basa su esternazioni e opinioni espresse dal professore Ilham Tohti nelle sue lezioni, durante le quali ha sempre tentato di incoraggiare la cooperazione tra comunità diverse con l’obiettivo di attenuare le tensioni tra gruppi etnici differenti, mettendo in luce come e quanto le discriminazioni nei confronti degli uiguri sono insite nelle autorità cinesi.
In particolare, come raccontato in questo articolo, nella regione dello Xinjiang ogni giorno gli appartenenti alla comunità di uiguri (di religione musulmana) e altre minoranze etniche sono detenuti in campi di rieducazione, denominate ufficialmente “Scuole di istruzione professionale”, dove le vittime vengono sottoposte a lavori forzati, violenze sessuali, violazioni dei diritti riproduttivi, torture e altri trattamenti inumani e degradanti. Dallo scoppio della pandemia da Covid-19 le autorità hanno potenziato i controlli dei campi rendendo ancora più difficoltoso reperire informazioni sui detenuti e sulle loro condizioni.
Li Qiaochu, difensora dei diritti dei lavoratori
Li Qiaochu è una femminista che si batte per i diritti dei lavoratori occupandosi, in particolare, dei lavoratori migranti in cerca di lavoro e alloggi a prezzi accessibili dopo l’aumento delle persecuzioni da parte delle autorità nei confronti di essi. Li Qiaochu è accusata di “incitamento alla sovversione del potere statale”, ma non ancora processata. Inoltre, è stata spesso interrogata per ottenere informazioni sul suo partner Xu Zhiyong, detenuto anche lui dal febbraio 2020.
Gao Zhisheng, l’avvocato per i diritti umani
Se nel 2001 Gao Zhisheng è stato nominato dal Ministro della Giustizia come uno dei migliori dieci avvocati del Paese per essersi occupato di casi di interesse pubblico pro-bono, nel 2005 gli viene sospesa la licenza poiché ha chiesto alle autorità di fermare le persecuzioni religiose nei confronti dei praticanti del Fa Lun Gong. L’avvocato Zhisheng continua ad essere oggi un attivista e difensore dei diritti umani, ma dopo la pubblicazione delle sue memorie Stand Up China 2017 – China’s Hope: What I Learned During Five Years as a Political Prisoner, non si hanno più sue notizie.
Rinchen Tsultrim, l’incitamento alla secessione
Rinchen Tsultrim è un monaco tibetano che dopo i disordini in Tibet nel 2008 ha iniziato a esprimere le sue opinioni attraverso WeChat e un blog personale. Nonostante gli avvertimenti dell’ufficio di pubblica sicurezza locale e la chiusura del proprio sito, Rinchen Tsultrim ha continuato a criticare le politiche cinesi e, per questo motivo, è stato arrestato nell’agosto 2019. Condannato a quattro anni e sei mesi di carcere nel novembre 2020 per “incitamento alla secessione”, i suoi familiari hanno appreso della sentenza solo nel marzo 2021.
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