Deportazioni e sparizioni forzate, l’Etiopia continua a sanguinare

Nonostante la promessa di una “riconciliazione nazionale”, rilanciata dal primo ministro Abiy Ahmed, la situazione in Etiopia rimane tutt’altro che pacifica.


A lanciare l’allarme è Nada al-Nashif, Vice Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani, la quale ha dichiarato di ricevere “rapporti credibili” riguardanti le gravi violazioni dei diritti umani e abusi in Etiopia commessi da tutte le parti del conflitto.

In Etiopia, il rischio «di aumentare l’odio, la violenza e la discriminazione è molto alto». Il conflitto interno, che va avanti da 13 mesi, potrebbe infatti trasformarsi «in violenza generalizzata», specialmente per gli abitanti del Tigray che rappresentano le principali vittime.

Il rapporto di Human Rights Watch sull’Etiopia

Un recente rapporto di Human Rights Watch (HRW) ha messo in luce la dura repressione interna ed esterna di cui sono vittime i tigrini, coinvolti in un duro programma di espulsione a fini persecutori. Secondo le indagini condotte dall’Ong, migliaia di Tigrini sono stati deportati dall’Arabia Saudita per essere poi arrestati in Etiopia, subendo nel corso delle operazioni abusi e brutalità da parte delle forze armate dei due Paesi.

«Le autorità etiopi stanno perseguitando i tigrini deportati dall’Arabia Saudita detenendoli ingiustamente e facendoli sparire con la forza», ha dichiarato Nadia Hardman, ricercatrice sui diritti dei rifugiati e dei migranti presso Human Rights Watch.

Il mito infranto della terra promessa

Negli ultimi anni, a causa di vari fattori (alto tasso di disoccupazione, grave crisi economica, siccità, sistematiche violazioni dei diritti umani), numerosi etiopi hanno abbandonato il Paese alla ricerca di un futuro migliore. L’Arabia Saudita e i Paesi limitrofi hanno costituito, per via della grande disponibilità di posti di lavoro, una sorta di terra promessa. 

Centinaia di migliaia di etiopi hanno viaggiato in modo irregolare verso l’Arabia Saudita, prima in barca, attraverso il Mar Rosso o il Golfo di Aden, e poi via terra attraverso lo Yemen. Si tratta di un lungo e pericoloso viaggio e  non tutti riescono a superare il confine indenni. «È come un cimitero. Non ci sono cani o iene lì per mangiare i corpi, solo cadaveri ovunque», ha raccontato un migrante intervistato da Human Rights Watch.

Per coloro che ce la fanno, una volta giunti nella penisola arabica il sogno di un futuro migliore e dignitoso si infrange immediatamente. 

«Molti etiopi che speravano in una vita migliore in Arabia Saudita affrontano pericoli indicibili lungo il viaggio, tra cui morte in mare, torture e abusi di ogni genere», ha dichiarato Felix Horne, ricercatore senior di Human Right Watch. Hanno trovato invece solo miseria, sfruttamento e violenza.

Deportazioni di massa e sospetti

Le deportazioni dei migranti etiopi non sono una novità. Il governo saudita ha infatti avviato una dura campagna di espulsione già nel novembre del 2017. L’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (IOM) ha stimato che, all’epoca, si trovassero all’interno dell’Arabia Saudita circa 500 mila etiopi. Le autorità hanno perseguito, arrestato e deportato tutti gli stranieri che violano le leggi sul lavoro o sulla residenza e tutti coloro che hanno attraversato il confine irregolarmente. 

Dopo la cattura, e prima di essere rimpatriati, i migranti vengono condotti nei centri di detenzione e nelle carceri saudite, sovraffolate e carenti di cibo, acqua e cure mediche. Molti migranti hanno denunciato episodi di abusi e percosse da parte delle guardie saudite.

Tra maggio 2017 e marzo 2019 sono stati deportati dall’Arabia Saudita in Etiopia circa 260 mila etiopi. In media 10 mila al mese. 

Nel gennaio 2021 il governo etiope ha annunciato la sua collaborazione alle procedure di rimpatrio di 40 mila cittadini detenuti in Arabia Saudita, mille a settimana. Tra la fine di giugno e la metà di luglio le deportazioni hanno subito un aumento significativo. Si sono registrati infatti oltre 30 mila deportati. Il 40% dei rimpatri avvenuti tra novembre 2020 e giugno 2021 ha coinvolto etiopi di etnia tigrina. 

Un dato molto sospetto, soprattutto alla luce del conflitto interno che dilania il Paese. Ma non solo. Nello stesso periodo, in seguito al ritiro delle forze governative dalla regione del Tigray e l’intensificarsi della guerra civile, si è registrato un aumento della profilazione, delle detenzioni arbitrarie e delle sparizioni forzate di tigrini. 

Altro dato sospetto. Intervistati da Reuters, molti tigrini hanno confermato la nuova ondata di arresti nella capitale. Un operatore sanitario racconta di essere stato trattenuto all’interno di un edificio simile a un magazzino, nella periferia meridionale di Addis Abeba, insieme a circa altri 300 tigrini. Tra i detenuti un sacerdote, due donne con bambini piccoli, un mendicante. Accomunati tutti dallo stesso elemento in comune: essere di origine tigrina.

Molti testimoni raccontano di fermi e arresti di tigrini avvenuti per strada, nei bar e in altri luoghi pubblici, all’interno delle case e nei posti di lavoro. Spesso a seguito di perquisizioni senza mandato. Human Rights Watch ritiene che nella maggior parte dei casi (quasi la totalità) si sia trattato di azioni detentive illegali, determinate unicamente sulla base dell’etnia. Ed infatti secondo innumerevoli testimonianze le forze di sicurezza, prima di procedere, hanno controllato le carte d’identità delle persone in modo da verificare l’effettiva appartenenza al gruppo etnico nemico preso di mira.

Attraverso una dichiarazione congiunta, Amnesty International e Human Rights Watch hanno ribadito che «i civili tigrini che tentavano di sfuggire alla nuova ondata di violenza sono stati attaccati e uccisi. Decine di detenuti devono affrontare condizioni pericolose per la vita, tra cui tortura, fame e diniego di cure mediche».

Condizioni disumane

Secondo il rapporto di Human Rights Watch i tigrini rimpatriati dall’Arabia Saudita sono stati individuati e trattenuti nella capitale Addis Abeba contro la loro volontà, impedendo loro di far ritorno nella loro regione. Una volta identificati sono stati trasferiti in strutture di detenzione. Alcuni di loro sono stati formalmente accusati di collusione con il TPLF (Fronte di liberazione del popolo del Tigray), considerato dal governo centrale un gruppo terrorista. 

Human Rights Watch ha parlato con i detenuti di cinque centri di detenzione etiopi.  Una di loro, Trhas, ha raccontato di essere stata espulsa dall’Arabia Saudita nel dicembre 2020 e di essere stata trattenuta con altre 700 persone in condizioni disumane. «Abbiamo chiesto alla polizia federale cibo, acqua e servizi igienici, ma siamo stati picchiati se abbiamo lasciato i nostri posti. Hanno detto: i banditi non hanno bisogno di cibo», ha riferito la giovane donna. 

Le condizioni sono poi diventate progressivamente più restrittive e difficili all’interno dei vari centri di detenzione. Percosse e abusi sono all’ordine del giorno. «Due giorni fa, loro (la polizia speciale Afar) sono venuti e hanno picchiato molti di noi. Sono ferito e la mia gamba e la mia testa sono gonfie. Ci hanno picchiato duramente». Queste le parole di un ventitreenne trattenuto nel centro di Semera.

Le storie di chi trova il coraggio e la forza di raccontare si somigliano tutte. Sono storie di violenze, abusi, privazioni, sovraffollamento, condizioni igienico-sanitarie inumane, inadeguatezza di cibo, acqua, cure mediche. 

Dal punto di vista strettamente legale si tratta di sparizioni forzate, ammonisce Human Rights Watch, e in quanto tali costituiscono una violazione del diritto internazionale. Le autorità, sia saudite che etiopi, infatti non forniscono informazioni alle famiglie dei deportati circa l’arresto e la loro ubicazione. Tutti i detenuti dovrebbero avere inoltre accesso immediato all’assistenza legale e alle loro famiglie, diritti che nei fatti sono loro negati.

Avvio di un’indagine internazionale

Alla luce di quanto emerso dalle varie indagini, l’Unione Europea e altri Stati membri delle Nazioni Unite hanno richiesto l’avvio di un’indagine internazionale sugli abusi commessi da tutte le parti del conflitto da quando hanno avuto inizio i combattimenti. Secondo il progetto di risoluzione del Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite, il team di tre esperti dovrebbe cercare di «stabilire i fatti e le circostanze che circondano le presunte violazioni e abusi, raccogliere e conservare le prove e identificare i responsabili». 

Il governo di Abiy Ahmed ha bocciato la proposta e ha esortato i Paesi a votare contro la bozza di testo. «Il mio governo non coopererà con alcun meccanismo che potrebbe essergli imposto perché questo è uno sforzo di destabilizzazione deliberato», ha dichiarato l’ambasciatore etiope Zembe Kebede, accusando di fatto l’ONU di essere stato “dirottato” e usato come “strumento di pressione politica”.

Nel frattempo in Etiopia si continua a morire. Secondo un documento delle agenzie umanitarie, dal 18 ottobre nel Tigray almeno 146 persone sono state uccise e 213 sono state ferite in attacchi aerei. L’ultimo raid sabato scorso, quando 56 persone sono state uccise e almeno 30 sono rimaste ferite nel corso del bombardamento di un campo profughi. Tra le vittime anche dei bambini. «Mi hanno detto che le bombe sono arrivate a mezzanotte. Era completamente buio e non potevano scappare», ha riferito a Reuters un operatore umanitario. 

La “riconciliazione nazionale” promessa è ben lontana dal suo raggiungimento.


Immagine in copertina di EU Civil Protection and Humanitarian Aid