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Quel giorno in cui Stephen, Albert e il Pi Greco hanno messo a posto l’universo

Che Stephen Hawking fosse una persona fuori dal comune, un genio, lo si è sempre saputo. La sua morte ha lasciato un vuoto probabilmente incolmabile, considerando il fatto che il suo cervello non era decisamente pronto ad andarsene, tutt’altro.

Stephen, infatti, ha lasciato, circa due settimane prima della sua morte, uno studio (firmato insieme al prof. Hertog, docente di fisica teorica all’università di Ku Leuven, in Belgio) in cui ha previsto, in estrema sintesi, la fine del mondo (che avverrà quando le stelle avranno esaurito la propria energia), e ha suggerito agli scienziati un potenziale metodo per rilevare l’esistenza di altri universi.

Sì, perché se a noi “comuni mortali” un solo universo basta e avanza, perché ci sembra immenso già solo a pensarlo, la mente di Hawking non era affatto convinta di questo, e andava ben oltre: lui non si è mai accontentato di un solo universo, lui ne ha ipotizzati molteplici, tanti universi coesistenti fuori dal nostro spazio-tempo, dei “mondi paralleli” che danno vita a quello che è conosciuto come il multiverso. E proprio nel suo ultimo studio, lui ha provato a spiegare agli scienziati del domani come riuscire a trovarli, questi universi, spingendosi più in là dove la mente umana ancora non è arrivata.

Di certo non può dirsi che Hawking mancasse di ambizione: in fondo, lui voleva “solo” arrivare all’origine di ogni cosa, voleva spiegare e riunire in un unico quadro tutti i fenomeni fisici conosciuti, lui voleva… tutto. Più precisamente, voleva scoprire la teoria del tutto. Se c’è una parola che può descrivere Hawking (oltre “genio”, s’intende), questa è proprio ambizione: un’ambizione che si è sempre spinta in alto, oltre quelle stelle che lui tanto ha amato osservare nella sua vita. Quell’ambizione e quelle intuizioni brillanti che gli hanno permesso di andare oltre la tremenda malattia che lo ha inchiodato su una sedia a rotelle per quasi 40 anni, che lo ha privato, ad un certo punto, persino della parola.

Ma lui no, non si è arreso. Nemmeno quando a 21 anni una diagnosi terribile gli è piombata sulla testa (una malattia del motoneurone, probabilmente una forma lenta, ma progressiva di SLA), e i medici gli hanno dato solo un paio d’anni di vita: lui, per tutta risposta, si è concentrato ancora di più sui suoi studi, analizzando e rifugiandosi tra i suoi amati buchi neri, fino ad arrivare a soli 37 anni ad essere titolare della cattedra di matematica all’Università di Cambridge (posizione ricoperta per 33 anni da Isaac Newton, e da Paul Dirac per 37, solo per citarne alcuni).

Tralasciando gli aspetti biografici, le sue pubblicazioni e gli innumerevoli successi delle sue scoperte scientifiche, ampiamente dibattute in altre sedi da chi ha le competenze adeguate per farlo, è parimenti stimolante riflettere su Hawking in quanto persona. Non fisico, cosmologo, matematico, ma semplicemente uomo. Stephen Hawking era una contraddizione vivente: la sua totale immobilità sulla sedia a rotelle cozzava non poco con la sua vivacità, il suo dinamismo intellettuale, che lo ha fatto correre e volare molto più in alto di tanti suoi colleghi.

Hawking ha lasciato un’eredità non soltanto agli scienziati del mondo, studiosi della materia, ma anche a chi di scienza ne capisce poco o niente, persino a chi la scienza l’ha sempre odiata sin dalle scuole elementari. Sì, perché Hawking ha costruito la sua figura a 360 gradi: è riuscito ad arrivare al pubblico con un innato carisma e un’auto-ironia, che lo hanno sempre contraddistinto, e che lo hanno portato a non prendersi mai veramente sul serio.

Lo abbiamo visto distruggere gli studi di Sheldon Cooper nella serie The Big Bang Theory (esilarante lo scambio di battute tra i due: «Professore, mi sta dicendo che ho sbagliato un calcolo aritmetico? Ma io non sbaglio mai!»; «Perché, io sì?» risponde lo scienziato), ed è stato omaggiato da Matt Groening nei “Simpson”, i Pink Floyd hanno inserito la sua voce nella canzone “Keep talking” nell’album The division bell.

Ogni persona potenzialmente può prendere Hawking come modello, come esempio: i matematici, i fisici, tutti gli scienziati prendono la sua mente, la sua intelligenza, le sue intuizioni, i suoi studi; le persone comuni prendono la tenacia, la costanza, la forza di vivere che gli ha fatto vincere la depressione, appena saputa la diagnosi della malattia. Ognuno può portare dentro di sé un pezzo di questo grande uomo, che con la sua eclettica figura è stato capace di plasmarsi su ciascuno di noi.

Hawking è riuscito a rendere non convenzionale persino la sua morte, avvenuta il 14 marzo: stesso giorno della nascita di Albert Einstein, nonché giornata ufficiale del pi greco (π), la costante matematica nota in tutto il mondo (3,14 inteso come sequenza mese-giorno, come in uso negli Stati Uniti, diventa, appunto, 14 marzo). E allora quello che ci piace pensare è che, forse, esiste davvero questo multiverso, questi mondi paralleli, che hanno deciso di combaciare e allinearsi, seppure per un solo giorno, dando vita ad una coincidenza sconcertante, che si incastra alla perfezione ad una personalità fuori dal comune, quale quella del professor Hawking.

Foto in copertina Daniel Arrhakis


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