I distretti industriali e il rilancio dell’economia italiana

È plausibile ritenere che i distretti industriali siano più efficienti di una soluzione stand alone? Quale ruolo giocheranno nel processo di rilancio dell’economia italiana?


Nel capitolo VIII del libro I di “Principi di Economia”, Alfred  Marshall afferma che «troveremo che alcuni vantaggi della divisione del lavoro si possono ottenere solo nelle fabbriche molto grandi, ma che molti di essi, più di quanto sembri a prima vista, possono essere conseguiti da piccole fabbriche e laboratori, purché ve ne sia un numero elevato nella stessa attività». 

Alfred Marshall – economista inglese che per primo ha approfondito i vantaggi derivanti dalla localizzazione in un determinato territorio di più imprese operanti nello stesso settore – riconosceva, innanzitutto, l’importanza della relazione che intercorre tra scala di produzione dell’impresa e costi di produzione, in quanto il costo unitario dipende dall’ampiezza della singola impresa, ma non necessariamente da quella del settore. Egli individuava in tal modo la presenza delle cosiddette economie di scala interne che danno alle grandi imprese un vantaggio di costo sulle piccole, determinando una struttura di mercato di concorrenza imperfetta.

Tuttavia, nella seconda parte della citazione si assiste ad un ridimensionamento di quanto precedentemente affermato. Vengono individuate, infatti, le cosiddette economie di scala esterne, che non sono inquadrate in una struttura di mercato in cui il controllo appartiene a una singola impresa o a un numero limitato  di imprese, ma piuttosto all’interno di una cornice in cui vi sono molte piccole imprese in una struttura di mercato di concorrenza perfetta.

Le economie di scala esterne, oggigiorno, sono elementi molto importanti del commercio internazionale. Esistono numerose piccole e medie imprese (PMI) che operano all’interno di quelle realtà che Marshall per primo aveva definito “industrial districts”, ovvero particolari aggregazioni di un numero rilevante di piccole imprese, di natura simile, specializzate in un dato settore dell’industria manifatturiera.

In estrema sintesi, le tre principali ragioni per cui un distretto industriale può essere più efficiente di una soluzione stand alone sono: 

– la capacità di attirare fornitori specializzati;
– la capacità di generare un bacino di lavoratori con qualifiche adatte;
– la capacità di promuovere spillover di conoscenza.

Si possono citare in tal senso i successi ottenuti dall’industria dei semiconduttori concentrata nella Silicon Valley californiana, oppure dall’industria delle banche di investimento concentrata a New York, o ancora dall’industria cinematografica concentrata ad Hollywood. 

Quelli appena citati sono sicuramente, in campo internazionale, tra i più famosi esempi moderni di distretti industriali di successo, ma non sono di certo gli unici. A titolo esemplificativo, potremmo citare il distretto industriale di Bangalore che ha avuto un ruolo significativo nel far emergere l’India come uno dei maggiori esportatori di servizi informativi. E ancora, gli importanti distretti industriali italiani specializzati soprattutto nelle attività legate ai settori tradizionali, come le ceramiche di Sassuolo o il tessile di Prato, e ad alcuni rami della meccanica, come le macchine agricole di Treviglio.

distretti industriali

Distretti industriali, la realtà italiana

I distretti industriali hanno iniziato a svolgere un ruolo importante all’interno del contesto italiano a partire dagli anni ’70, in concomitanza con l’inizio della fase di declino del modello fordista. I motivi principali che sottendono al declino fordista sono riscontrabili soprattutto in quattro fattispecie: la saturazione del mercato dei beni standardizzati nei Paesi più sviluppati, la concorrenza degli Stati emergenti, i nuovi conflitti sociali e le difficoltà di tener sotto controllo la spesa pubblica.

In quegli anni, cominciarono a prendere forma nuove esperienze di organizzazione produttiva che valorizzavano più che in passato il ruolo delle PMI, le quali iniziarono ad affermarsi nei mercati di sistemi locali che collaboravano tra loro nel processo produttivo. Furono i sistemi di piccole imprese a cogliere per primi le nuove opportunità per sperimentare modelli produttivi più flessibili.

Questi sistemi produttivi presero vita, soprattutto, dove erano presenti ricche economie esterne, alimentate dalla capacità di produrre beni collettivi locali. I distretti industriali, specie inizialmente, sono stati identificati con lo sviluppo industriale, proprio per la loro capacità di servirsi di beni collettivi locali e di esprimere il protagonismo, all’interno dei vari territori, tanto dei soggetti nella loro individualità quanto dei soggetti come collettivo.

I distretti rappresentano una forma di progresso locale in cui le economie esterne sono alimentate da dotazioni originarie, sedimentatesi storicamente da risorse materiali e immateriali, tra cui le tradizioni del saper fare locale, che sostengono l’imprenditorialità e l’offerta di lavoro qualificato. 

Le PMI, operanti all’interno dei distretti industriali (“PMI distrettuali”), si rivolgono principalmente ai mercati stranieri, sono specializzate nei settori del Made in Italy e hanno rappresentato negli anni un tratto sempre più distintivo del tessuto produttivo italiano. 

Il XIII Rapporto Annuale “Economia e finanza dei distretti industriali”, pubblicato da Intesa San Paolo lo scorso 22 aprile (da ora in poi “XIII Rapporto annuale”), ci aiuta a comprendere quali sono stati gli effetti della pandemia Covid-19 su questo importantissimo polmone dell’economia italiana nel 2020 e quali sono le prospettive per il 2021.

Il rapporto evidenzia come, dopo un calo di fatturato stimato pari al 12,2 per cento nel 2020 (a prezzi correnti e in valori mediani), per il 2021 è atteso un rimbalzo a “V” dei livelli produttivi dei distretti industriali, con un incremento dell’11,8 per cento. Il recupero sarà parziale e lascerà il fatturato distrettuale del 2,9 per cento inferiore al livello del 2019 (sempre in mediana). Pesano le difficoltà del “sistema moda” e, più in generale, una prima parte dell’anno ancora penalizzata dalla pandemia. 

La reazione è significativa considerando che, nel 2020, il 25,2 per cento delle imprese aveva avuto una marginalità negativa. Circa la metà di queste imprese ha potuto contare sulla liquidità interna per appianare le perdite; le restanti hanno potuto attivare moratorie o finanziamenti garantiti a tassi agevolati.

Gli spunti di analisi offerti dal XIII Rapporto Annuale ci orientano verso un cauto ottimismo per cui le PMI distrettuali potranno svolgere un importante ruolo nel processo di rilancio dell’economia italiana dei prossimi anni. Sarà fondamentale impiegare bene le risorse provenienti dal Next Generation EU e far ripartire gli investimenti in macchinari 4.0, digitale, green e capitale umano.

La propensione a investire negli ultimi anni è stata direttamente correlata con le dimensioni aziendali. Dallo studio di Intesa San paolo emerge che solo il 2,8 per cento delle Grandi imprese distrettuali mostra insufficienti investimenti; si sale al 22,2 per cento tra le Micro imprese. È quindi cruciale che in futuro vi sia una ripresa degli investimenti tra le imprese minori. All’interno dei distretti, le imprese che hanno adottato politiche di investimento adeguate negli ultimi 5 anni sono anche quelle con risultati economico-reddituali migliori e condizioni patrimoniali soddisfacenti, confermando la relazione tra investimenti realizzati nel tempo ed evoluzione delle imprese.

Riguardo ai processi di digitalizzazione, l’incidenza di Information and Communications Technology (ITC) e Research and Development (R&D) sul totale degli acquisti di beni e servizi all’interno dei distretti industriali godeva di un interessante trend di crescita già prima dell’avvento della pandemia Covid-19 (4,1 per cento nel 2019, +0,4 per cento rispetto al 2016), grazie soprattutto al traino della meccanica. Questo trend ha subito un’importante accelerazione nel 2020.

La chiusura dei negozi fisici e le restrizioni alla circolazione hanno modificato le abitudini di consumo, portando a un forte sviluppo dell’e-commerce. La necessità di lavorare a distanza ha reso ancora più indispensabili il ricorso a processi di automazione e di controllo da remoto lungo tutte le fasi produttive. È abbastanza chiaro, quindi, come il nuovo scenario plasmato dal quadro pandemico abbia dato nuovo vigore e una importanza sempre più crescente agli investimenti in nuove tecnologie. 

Chi adotta soluzioni 4.0 ha ritorni importanti in termini di miglioramento della qualità, aumento della velocità di produzione, flessibilità e personalizzazione della produzione, miglioramento della sicurezza, efficientamento del magazzino e riduzione dei costi. 

Al progressivo sviluppo tecnologico si è accompagnata la crescita degli investimenti green. Basti pensare che tra le imprese distrettuali la quota di brevetti green sul totale è salita al 6,3 per cento negli anni più recenti (2014-2018), un valore più che doppio rispetto ai primi anni Duemila. Nei distretti, l’incidenza di imprese con impianti di produzione di energia da fonte rinnovabile e beneficiari degli incentivi del Gestore Servizi Energetici è pari al 25,2 per cento tra le aziende di grandi dimensioni, contro il 20,3 per cento delle medie, il 13 per cento delle piccole e il 6,4 per cento delle micro.

Quanto appena rappresentato è destinato ad assumere dimensioni sempre maggiori sulla scia del Green Deal europeo, la nuova strategia di crescita presentata dalla Commissione europea l’11 dicembre del 2019, volta ad avviare il percorso di trasformazione dell’Europa in una società a impatto climatico zero dotata di un’economia moderna, efficiente sotto il profilo delle risorse e competitiva.

La via italiana per lo sviluppo di un sistema innovativo che risponda alla domanda di tecnologia e di capitale umano da parte delle imprese passa senz’altro dai Competence Center, dai Digital Innovation Hub, dagli ITS e dalle Corporate Academy

Soprattutto i Competence Center – introdotti con decreto nel 2018 nella forma di partenariato, pubblico e privato, con lo scopo di promuovere e realizzare progetti di ricerca applicata, di trasferimento tecnologico e di formazione su tecnologie avanzate – possono essere lo strumento più adeguato per tenere in considerazione, da un lato, le specificità dei diversi territori italiani e, dall’altro lato, evitare un’eccessiva parcellizzazione dell’attività di ricerca e sviluppo tra gli enti di ricerca. 

Il loro futuro è strettamente legato alle scelte di politica industriale che verranno adottate dal governo Draghi, sia in termini di risorse da assegnare, sia per quanto riguarda l’organizzazione che si vorrà dare al sistema innovativo italiano. Nel breve periodo, un sostegno importante all’azione e al rilancio di questi istituti potrà venire dai fondi resi disponibili dal Next Generation EU. Nel medio termine, però, la loro autosufficienza economica, similmente a quanto avviene per i Fraunhofer in Germania, dovrà progressivamente basarsi su contratti di ricerca stipulati con il tessuto produttivo. 

“Some people regard private enterprise as a predatory tiger to be shot. Others look on it as a cow they can milk. Not enough people see it as a healthy horse, pulling a sturdy wagon” (W. Churchill)


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