Casca il mondo

Di Gaia Garofalo – Più di 357 milioni di bambini, 1 su 6 al mondo, vivono attualmente in zone colpite dai conflitti, un numero cresciuto di oltre il 75% rispetto all’inizio degli anni ’90, quando i minori in tali contesti erano 200 milioni. Circa 165 milioni – quasi la metà del totale – si trovano in aree caratterizzate da guerre ad alta intensità, costretti a sofferenze indicibili.

Bambini e bambine estirpati dai loro corpi e dalle innocenze, dal sonno beato, che vorremmo tutti fosse solo un grande incubo immenso e chissà se la notte sognano ancora, anche solo un fiore. Perché il risveglio al mattino dopo è il miracolo di sopravvivenza, quando aprire gli occhi significa vedere e vedere significa togliere: le famiglie, le scuole e le dimore distrutte dai bombardamenti; essere tagliati fuori da un futuro e vederlo sgretolare come macerie.

Siria, Afghanistan e Somalia si trovano in cima alla classifica dei 10 paesi segnati dalla guerra “dove è più difficile essere bambini” e dove le conseguenze sulla loro vita sono ancora più gravi. A seguire Yemen, Nigeria, Sud Sudan, Iraq, Repubblica Democratica del Congo, Sudan e Repubblica Centrafricana. Ma questo non è il Festivalbar delle ultime uscite musicali nelle Top Hits, questi sono dati statistici disgraziati che non vorremmo mai avere motivo di stilare.

«Stiamo assistendo a un aumento scioccante del numero di bambini cresciuti nelle aree colpite da conflitti e alla loro esposizione a forme di violenza immaginabili. I bambini stanno subendo sofferenze che non dovrebbero mai vivere sulla propria pelle, dagli stupri all’essere utilizzati come kamikaze. Le loro case, scuole e campi da gioco sono diventati veri e propri campi di battaglia. Crimini come questi rappresentano abusi intollerabili e sono una flagrante violazione del diritto internazionale» – ha dichiarato Daniela Fatarella, Vice Direttore Generale di Save the Children Italia.

Ma tra i palazzi crollati, le case distrutte, le vite sottratte allo scorrere del tempo, c’è anche chi non vuole rassegnarsi alla devastazione e comunica. Sono le ultime generazioni a ricordare al mondo intero che saranno loro le prime a pagare le conseguenze di tutto ciò, perché c’è chi c’è nato e ci sta crescendo in quella che non dovrebbe essere abitudine.

Muhammad Najem è un adolescente di 15 anni che, da quando è iniziato quello che va definito un vero e proprio massacro di esseri umani, documenta gli orrori della guerra con gli strumenti utilizzati dai suoi coetanei: smartphone, emoji, tweet e selfies. La normalità, la routine nella distruzione, ma non la consapevolezza di una speranza per i diritti umani. Anzi, una pretesa fortissima per ciò che è giusto, un grido assordante contro ciò che non è bello.

Bello, termine semplice, vero, infinito, dissacrato quando attorno c’è tutto il resto che ammazza. Intanto si augurano a Majida, 7 anni – arrivata dalla Siria a Roma tra le braccia di sua nonna pochi giorni fa – le storie più belle, i sogni più magici, i cieli più immensi. L’Isola che non c’è non ha mappa.