Numeri amari

Di Francesco Paolo Marco Leti – «A novembre 2018 si stima che l’indice destagionalizzato della produzione industriale diminuisca dell’1,6% rispetto a ottobre. Nella media del trimestre settembre–novembre 2018 il livello della produzione registra una flessione dello 0,1% rispetto ai tre mesi precedenti… Corretto per gli effetti di calendario, a novembre 2018 l’indice è diminuito in termini tendenziali del 2,6% (i giorni lavorativi sono stati 21 come a novembre 2017)». Così scrive l’ISTAT sull’andamento della produzione industriale, nel mese di novembre, nel nostro Paese.

Nello specifico, se si guardano i settori economici, i dati dell’Istituto Nazionale di Statistica sono drammatici: su 16 settori analizzati soltanto tre presentano una crescita, quali alimentari e tabacco, farmaceutica e altri settori manifatturieri. I restanti variano da una decrescita già marcata, fra l’1% e il 2%, a crolli pesanti, come il settore di legno, carta e stampa (-10,4%), il settore estrattivo (-9,7%) o gomma e materie plastiche (-6,7%). Si tratta di previsioni che sono in controtendenza rispetto alle recenti parole annunciate dal Vice premier e Ministro dello Sviluppo Economico, Luigi Di Maio.

Questi dati rafforzano quelli dei mesi precedenti, creando quella che in termini economici viene definita tendenza del paese che, purtroppo, sembrerebbe indirizzarlo verso una nuova recessione, come ampiamente previsto. Come scritto nell’articolo intitolato “L’avvitamento italiano” di giorno 4 dicembre 2018 su Eco Internazionale, le cause del crollo della produzione industriale non sono strettamente endogene rispetto all’economia nazionale e la prova di ciò è l’andamento similare dei dati sull’intero continente europeo, in particolare in Germania.

Nel paese teutonico, infatti, la produzione industriale è crollata dell’1,9% nel mese di novembre, rispetto al mese precedente, e ben del 4,7% su base annua, la peggiore dal 2009. Grazie a questi dati, anche l’ultimo trimestre del 2018, come il terzo, dovrebbe essere negativo e, quindi, l’economia tedesca dovrebbe entrare in recessione “tecnica”, generando un dato negativo sulla crescita per due trimestri consecutivi. Interessante è il parallelo fra il calo della produzione industriale nel settore automobilistico fra Italia e Germania a novembre su base annua, sintomo del collegamento del settore produttivo fra i due paesi: in Germania il calo è stato del 20%, mentre in Italia del 19,4%.

Nel quadro europeo, invece, Italia e Germania non costituiscono certo un’eccezione: in Francia il calo della produzione industriale su base mensile è stato dell’1,3%, in Spagna dell’1,5% e persino il Regno Unito ha presentato un calo dello 0,4%.

Potremmo consolarci pensando che i dati riguardano esclusivamente la produzione industriale, con scarsi o marginali effetti sulla crescita economica. La realtà purtroppo è diversa. Molti economisti, infatti, rilevano come, nella maggior parte dei paesi, tale produzione abbia un effetto previsionale rispetto alla reale crescita, determinandone gli esiti o influenzandone marcatamente l’andamento. In sostanza, quello che non è prodotto oggi non potrà essere venduto in futuro, contraendo fortemente la crescita, in particolare per Paesi fortemente manifatturieri, come Italia e Germania.

Quali sono le ragioni di questo andamento? Si tratta, purtroppo, di eventi quasi tutti esogeni, non solo rispetto al nostro Paese, ma addirittura rispetto all’Unione Europea. Gli analisti indicano nelle tensioni commerciali fra Stati Uniti e Cina la principale delle ragioni, anche se influiscono sullo scenario economico, sia l’incertezza sulla Brexit, di cui abbiamo trattato ampiamente, sia lo shutdown negli Stati Uniti. Riguardo l’economia statunitense, in particolare, comincia a essere ventilata la remota possibilità di una recessione nella seconda metà del prossimo anno, nonostante i tassi di crescita degli ultimi anni.

La prossima contrazione economica, purtroppo, renderà nuovamente evidenti i limiti strutturali dell’eurozona. Senza (o quasi) il traino dell’export, senza una politica fiscale espansiva che sostenga i consumi e con una politica monetaria avviata verso una restrizione (si pensi alla fine del quantitative easing e al ventilato rialzo dei tassi), la stagnazione economica è destinata ad avere effetti marcati sull’economia reale.

Nel nostro Paese, in particolare, potrebbero aggravarsi nuovamente le condizioni del mercato del lavoro, non sufficientemente dinamico già adesso (specialmente a livello giovanile), e del settore bancario, con una nuova crescita dei crediti deteriorati. In conclusione, per vedere gli effetti sull’economia reale sarà necessario attendere dai tre ai sei mesi, con la speranza che le previsioni si rivelino sbagliate.


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