Conosci, apprendi, lavori!

Di Ugo Lombardo – In un contesto come quello della globalizzazione, sono presenti continui processi di innovazione che richiedono livelli elevati di formazione, flessibilità, apprendimento continuo, adattabilità a situazioni sempre diverse, capacità di accedere alle informazioni e creatività. Nello specifico, quindi, è sempre maggiore il ricorso al cosiddetto capitale immateriale in cui sembra poggiare, oggi, la crescita economica. Tale aspetto rappresenta una differenza sostanziale rispetto al periodo della rivoluzione industriale, in cui, invece, vi era la tendenza ad accumulare il capitale materiale, fondato su fattori quali le macchine.

All’interno di questo nuovo modo d’intendere la crescita economica, s’inserisce bene un nuovo tipo di economia, che può aiutare a comprendere tale evoluzione, cioè l’economia della conoscenza o knowledge economics che considera la conoscenza come bene economico avente effetti sia sul benessere individuale, sia su quello collettivo.

In particolare, vi sono delle dimensioni che la caratterizzano e sono stati gli economisti Bengt-Åke Lundvall e Björn Johnson che, già nel 1994, ne hanno evidenziate quattro.

Innanzitutto, vi è il know what (sapere che cosa), che riguarda il possesso e la conoscenza delle informazioni attraverso l’ausilio delle banche dati. E’ un tipo di conoscenza che oggi è sempre più legata all’accumulazione delle informazioni in modo indiscriminato, attraverso l’utilizzo dei big data. La seconda dimensione è costituita dal know why (sapere perché), che si riferisce alla conoscenza teorica e riguarda i principi e le leggi che governano la natura, la mente umana e la società. Questa dimensione è alla base della ricerca scientifica e tecnologica. Entrambi questi saperi si acquisiscono attraverso la lettura di libri, frequentando corsi, lezioni, seminari e procurandosi l’accesso a banche dati.

Diversi, invece, sono il know how (sapere come) e il know who (sapere chi). Il primo rappresenta il capitale umano di un’impresa e delle diverse reti sociali ed è legato, soprattutto, all’esperienza operativa individuale o condivisa dei lavoratori. Il secondo, invece, consiste nel saper conoscere persone che svolgono determinati compiti, capaci di trovare soluzioni a problemi inediti e complessi. Fondamentali sono l’abilità relazionale, di cooperazione e di comunicazione con soggetti diversi, in particolare con esperti di varie aree. Questa è la dimensione della conoscenza che permette di costruire reti e alimenta la formazione di capitale sociale, in una prospettiva di larga e intensa interattività.

Entrambi questi due saperi rappresentano quelle che comunemente vengono conosciute come abilità relazionali e team-working e fanno parte della conoscenza tacita (tacit knowledge), difficile da codificare e da misurare. In particolare, il know how si apprende con la pratica sociale, con l’azione quotidiana, mentre il know who è una conoscenza che si acquisisce anch’essa con la pratica sociale, ma esercitata in ambienti formativi specializzati, e si alimenta giorno dopo giorno attraverso le relazioni instaurate con diversi soggetti, tra i quali colleghi, clienti, fornitori ed istituzioni.

Bisogna precisare, tuttavia, che conoscenza non s’identifica con informazione, pur essendo quest’ultima una delle componenti della prima. Nello specifico, mentre l’informazione è un insieme di dati strutturati e formalizzati e diventa conoscenza solo dopo essere stata processata dalla mente di un individuo, la conoscenza è capacità di apprendere e capacità cognitiva, cioè l’insieme dei processi e delle attività mentali, come il problem solving, il ragionamento, il pensiero, oltre che le capacità deduttive, che coordinano le nostre conoscenze. L’informazione, quindi, dà il quadro generico senza l’accumulazione della conoscenza, mentre la conoscenza e l’apprendimento producono nuova conoscenza.

Ed è quello che oggi, nel campo delle nuove professioni, si richiede sempre di più, ovvero capacità creativa basata su un insieme di saperi che sono frutto della combinazione del lavoro sul campo e delle abilità relazionali e teoriche che generano innovazione. Da qui, si può affermare che l’innovazione è produzione di nuova conoscenza, che ha valore economico in quanto viene utilizzata nei processi produttivi. Questo tipo di concezione di crescita economica, se da un lato è tipica dell’evoluzione generata dalla globalizzazione, dall’altro, però, sembra essere anche una delle cause dell’aumento delle disuguaglianze a livello territoriale.

Secondo Joan Rosés, professore alla London School of Economics e Nikolaus Wolf, capo economico alla Humboldt University di Berlino, infatti, si è verificato il fenomeno per cui la ricchezza, da un lato, si sta accumulando sempre più nelle mani di pochi e, dall’altro, si sta concentrando in alcune aree, maggiormente quelle urbane, creando una specie di vuoto tra città e provincia. E questo potrebbe essere uno dei motivi che spiegherebbe la vittoria politica di quelli che generalmente sono definiti populisti sia in Europa (come ad esempio la schiacciante vittoria di Viktor Orbán in Ungheria), sia in Italia, con la vittoria elettorale di Lega e Cinque Stelle; vittoria, questa, che è espressione di un malcontento diffuso, generato da un impoverimento che dilaga a macchia di leopardo, dal Nord al Mezzogiorno.

L’Italia sembra essere fra i Paesi più colpiti da questo fenomeno d’impoverimento diffuso: l’altopiano di Asiago, un tempo distretto turistico importante, oggi soffre della concorrenza di Cortina d’Ampezzo, che fa il tutto esaurito, sia d’estate, che d’inverno. Tutto questo è spiegabile, secondo Rosés, per via della nuova tendenza dei capitali ad accentrarsi nelle città, e questo è il motivo per cui vi è stato lo spopolamento delle valli. La globalizzazione, se da un lato ha determinato processi di standardizzazione in campo economico e sociale, dall’altro dà l’opportunità, alle zone ai margini dell’economia, di specializzarsi attraverso l’individuazione della vocazione per cui questi territori sono più portati.

Nelle Madonie, ad esempio, si sono specializzati nell’ambito astronomico, grazie alla caratteristica locale di un cielo che offre visioni nitide perfette per un’osservazione scientifica. Proprio per questo, è stato realizzato il Telescopio Fly – Eye, unico al mondo, per la scoperta e il monitoraggio di detriti spaziali e asteroidi pericolosi per la Terra. Questo dimostra come oggi, ancor più di ieri, è necessaria una specializzazione territoriale legata alle vocazioni del territorio stesso e, a questo scopo, è stata ideata la strategia della specializzazione intelligente, denominata S3 (Smart Specialization strategy).

È una strategia, questa, attraverso la quale si cerca di individuare i settori maggiormente di punta delle singole regioni, che necessitano di specifiche competenze, e alla cui base vi è l’aspetto della creatività connesso alle tradizioni. Usando le parole dello storico Fernand Braudel, «non esiste città ricca senza una campagna» e, quindi, non esiste sviluppo senza la sinergia che coinvolge ogni elemento del territorio. Questa sinergia potrà portare, forse, nel tempo, alla riduzione di quel gap che tutti conoscono tra Nord e Sud, noto come Italia a due velocità.


Fonti:

R.Livraghi, Economia della conoscenza, Schedario/Lessico oggi;

Riva, L’economia della conoscenza sta uccidendo la nostra provincia, L’espresso;

Smart Specialization strategy, Agenzia per la coesione territoriale;

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