Take me (I’m yours): venghino signori, venghino al grande mercato dell’arte

1917: un semplice, quotidiano Orinatoio irrompe nel mondo dell’arte, frutto del genio carismatico di Marcel Duchamp, sprezzante filosofo dal taglio iconoclasta, per auto definizione “anartista”. Dunque, sì, un Orinatoio di porcellana bianca, presentato come una vera e propria opera alla mostra curata dalla Society of Indipendent Artist – e (nemmeno a dirlo!) rifiutata – riuscì ad entrare all’interno del complesso sistema dell’arte, sconvolgendolo per sempre.

Il ragionamento di Duchamp era semplice, lineare: è l’artista che determina l’artisticità di un oggetto, che gli dona valore decontestualizzandolo e attribuendogli una funzione diversa rispetto a quella per la quale era nato, inserendolo in luoghi per il quale non era preposto, scatenando curiosità, stupore ma anche malcontenti tra gli addetti ai lavori e i fruitori. Da qui, da questo nuovo ragionamento di stampo (pre)concettuale, ci si discosta da ciò che è stato, dalla visione romantica dell’artista, dalla iconografia ormai tediosa e monotona delle tele.

Da Duchamp, quindi, il punto di partenza – ma anche punto di non ritorno – di un’arte a volte al limite del credibile, di un’arte che – a volte – considera arte anche ciò che non lo è facendo sfuggire di mano il concetto Duchampiano del «tutto può essere arte». Ed è sempre questo il punto di partenza per molti artisti, padri di opere che inconsapevolmente battezzano correnti neofite.

Sicuramente merita menzione l’approccio, tutto nuovo, di numerosi artisti contemporanei che rendono l’arte come un universo da vivere, con cui relazionarsi e che implica, dunque, la partecipazione del pubblico a cui è destinata. È proprio questo il concept della mostra “Take Me (I’m Yours)” a cura di Christian Boltanski, Hans Ulrich Obrist, Chiara Parisi, Roberta Tenconi, ospitata da Pirelli HangarBicocca di Milano dal 1 Novembre 2017 – 14 Gennaio 2018. L’esposizione raccoglie le installazioni di circa 50 artisti internazionali, tra cui 15 italiani.

Allestita per la prima volta nel 1995, la mostra nasce da una serie di conversazioni tra i due curatori, Boltanski e Obrist, sulla necessità di pensare a come un’opera d’arte dovrebbe essere esposta.  Il titolo di per sé è esplicativo: “Prendimi (Sono Tuo)”, un imperativo ma al tempo stesso un invito che non si può rifiutare a compiere ciò che comunemente è “illecito” fare all’interno di un museo: toccare le opere, consumarle, modificarle, prenderle gratuitamente o magari portarle via, lasciando in cambio qualcosa di proprio, qualunque cosa, secondo la vetusta legge del do ut des, non limitandosi al mero spazio espositivo, come normalmente ci si può aspettare, ma coinvolgendo anche gli spazi esterni – sorpresa che, purtroppo, ho scoperto in un secondo momento! – dall’atrio al bookshop, da progetti per il catalogo al web. Vige la poetica del dono, dello scambio, del rapporto tra arte e vita, quell’arte che diviene un luogo di incontro, di dialogo, di confronto: in poche parole, si è immersi in quell’universo che viene artisticamente definito Arte Relazionale.

Entrando nel vivo dell’esperienza. Munita della shopping bag – che altro non era che una busta di carta riciclata disegnata e firmata “Boltanski”  – necessaria per prendere e collezionare le opere in esposizione, entro nel padiglione Shed dell’HangarBicocca, i cui mille metri quadrati erano occupati dalle opere degli artisti in mostra. “Grandi firme, grandi nomi sono proporzionali a grande stupore” penso. Beh, non sempre è così. Pregusto mentalmente una, per me, ovvia beltà, dunque volto il piccolo angolo che mi separa dallo spazio in cui le opere aspettavano noi spettatori bramosi, pronti a immergerci in una dimensione esperienziale fatta di piccoli artistici piaceri. Mi trovo dinanzi a un gran caos.

Cos’è che si dice a proposito del caos? Indica un ordine così complesso da non riuscire a essere comprensibile dall’uomo? Probabilmente il progetto curatoriale o l’allestimento prevedeva proprio questo: l’astrusa collocazione dei prodotti artistici, una sorta di ordine-disordine volutamente stabilito che realmente ha reso “incomprensibile” la poetica soggiacente la mostra. Infatti, il padiglione Shed del Pirelli HangarBicocca aveva preso le sembianze di un confusionario mercato rionale: piccoli “altarini” ci mostravano la merce che potevamo prendere gratuitamente – spillette, manifesti, tatuaggi che mi hanno riportato alla mente la classica campagna elettorale Usa – oppure scambiarle con oggetti personali. Dunque, altro non era che un grande via vai di gente, intenta a impossessarsi della mercanzia proposta.

Chi sono gli altri 50 artisti in mostra? Qual è l’idea che vive dietro il loro operato, dietro questa mercanzia così gettonata? Non vedo cartellini esplicativi a colpo d’occhio accanto alle opere. Ma chi cerca trova! Proprio accanto ad ogni rialzo espositivo, ecco degli scatoloni da imballaggio – come quelli che si usano per i traslochi, per intenderci – sui quali sono posati dei volantini che dichiarano la paternità e il pensiero che accompagna il lavoro presentato (gli scatoloni contenevano altre migliaia di volantini, qualora fossero finiti poiché staccabili e collezionabili). Adesso, capisco il voler essere “originali”, la voluta casualità – come a dire “sono lì incidentalmente, qualcuno li ha poggiati e li ha dimenticati con tutte le scatole”e capisco anche che creare una targhetta che non sia brutta e avvilisca la presentazione sia difficile, ma la chiarezza e l’immediata comprensione in determinati contesti è fondamentale se si vuole vivere una mostra nella sua interezza ed evitare l’effetto “fiera di natale” che – a parer mio – ha rasentato.

Note positive. L’iconico tappeto di caramelle del delicato artista Félix Gonzales Torres, con cui racconta la paura, la sofferenza, la malattia del compagno e con cui mette in comune idee, sentimenti per trasformare le emozioni e il suo privato in metafore universali: ogni fruitore è invitato a cogliere una caramella affinché l’opera si consumi, finisca, così come la vita del suo compagno Ross – e cinque anni dopo quella dell’artista – e anche la nostra. L’impatto emozionale è forte, le sue opere racchiudono e raccontano il suo mondo: dal forte amore, le eccitazioni delle prime volte insieme, dalla malattia al triste epilogo. Una sorta di De brevitate vitae di senechiana memoria, fatta arte: «gioie e piaceri sono amareggiati dal senso della loro precarietà».

Ed infine Dispersion, l’installazione di Boltanski, curatore della mostra. Piramidi di vestiti occupano parte dello spazio espositivo: alludono alla morte, fanno riflettere sulla fragilità umana e sulla velocità con il quale il tempo scorre. Ma a sua volta allude anche alla vita, al corpo, all’anima che ha indossato quel vestito che ora giace lì, tra gli altri, sotto i quali battevano altri cuori, e che avvolgevano altri corpi, che riflettevano le anime di chi ne era proprietario. E dunque si muove su questo binario che viaggia tra una visione drammatica della vita e l’opposizione a una visione pessimistica di essa, salvandone l’essenza, la dignità che è in quell’involucro di stoffa.

La mostra, ergo, ha i suoi pro e i suoi contro: poetiche molto forti, di stampo concettuale, accompagnate da installazioni e opere, impegnative e non, che avrebbero potuto dar di più se l’allestimento avesse consentito una più chiara e immediata comprensione.

Probabilmente sarò stata io a non capirne l’originalità, chi lo sa. Per fortuna l’arte contemporanea è tutta una questione di soggettività: ciò che non è piaciuto a me magari risulterà fantastico per qualcun altro. E non c’è cosa più bella dei molteplici punti di vista, perché si sa: dissomiglianza è confronto.

Alessia Bonura