Morto per Coronavirus Vittorio Gregotti: l’architetto riformatore

«Se ne va, in queste ore cupe, un Maestro dell’architettura internazionale; un saggista, critico, docente, editorialista, polemista, uomo delle istituzioni, che – restando sempre e prima di tutto un architetto – ha fatto la storia della nostra cultura. Concependo l’architettura come una prospettiva: sull’intero mondo e sull’intera vita. Che grande tristezza». Con queste parole, Stefano Boeri, Presidente della Triennale, commentava, domenica scorsa, 15 marzo, l’improvvisa scomparsa di Vittorio Gregotti, stroncato, all’età di 92 anni, da una polmonite da coronavirus. È la prima vittima illustre della pandemia.

Nato a Novara nel 1927, Gregotti è stato uno dei padri della moderna architettura italiana. Figura eminentemente poliedrica, iniziò la sua sfolgorante carriera nel 1947, all’interno dello studio di Auguste Perret, maestro di Le Corbusier. Incantato dall’incessante viavai di intellettuali parigini ed europei in genere che incrociavano tra loro diverse competenze, l’architetto acquisì definitivamente come punto di riferimento della sua successiva attività la figura del “capomastro medievale” dotato per definizione di un ampio sguardo di insieme.

Senza per questo scadere in atteggiamenti da tuttologo, una volta tornato a Milano iniziò a frequentare le lezioni di filosofia teoretica di Enzo Paci e strinse forti rapporti d’amicizia e collaborazione con musicisti, letterati e artisti. Da Emilio Tadini a Elio Vittorini, da Umberto Eco a Luciano Berio.

Nel 1951 seguì Le Corbusier e Walter Gropius a Hoddesdon, dove si tenne il convegno del CIAM (Comitato Internazionale per l’architettura moderna). In quella sede, in particolare, familiarizzò per la prima volta coi concetti di storia e contesto. A chi insisteva che il contenuto del nostro futuro sarebbe stato modellato dalla tecnologia, si contrapponeva la dialettica con il passato, con i luoghi in cui si realizzava un’architettura. Ciò che preesisteva non andava ignorato, anche nel caso in cui il nuovo fosse stato un’eccezione. Si tratta di tematiche che Gregotti continuerà ad approfondire per il resto della sua carriera giungendo in fine a declinare una vera e propria “teoria architettonica dei materiali”.

In estrema sintesi, esistono due modi di praticare l’architettura, tendenzialmente alternativi fra loro: il primo consiste nel prendere in considerazione l’edificio in quanto tale, le sue specificità, le sue destinazioni d’uso, le sue caratteristiche costruttive, strutturali, materiali, distributive, tipologiche, estetiche; il secondo comporta invece il suo inserimento nel contesto in cui sorge, le relazioni che intrattiene con l’“ambiente” che lo circonda, la sua collocazione all’interno di un “panorama” più ampio. Il modo di praticare l’architettura di Gregotti appartiene senz’altro alla seconda specie.

In particolare egli concepì l’ambito operativo in cui si muoveva l’architetto come un unico grande contesto, un cosmo ordinato, all’interno del quale si inserivano i maestri che aveva tanto ammirato ed amato, le architetture su cui si era formato e i luoghi che aveva frequentato. Da un lato le materie fisiche, concretamente percepibili, dall’altro l’umanità e il suo immenso patrimonio di sapere. Sulla scorta del pensiero di Husserl, Gregotti disegnò un universo in continuo divenire, un cantiere aperto, una realtà di incessanti relazioni, da costruire e decostruire, in un “processo di andata e ritorno continuo”, in cui tutto si impara facendo e anche l’errore ha un suo ruolo essenziale.

Perno di questa concezione “relazionistica”, in aperto contrasto con l’approccio più squisitamente contemporaneo, è il progetto. Quest’ultimo è lo strumento per eccellenza, in mano all’uomo, autore di ogni modificazione, dove per modificazione non si intende l’introduzione di novità assolute e avulse dalla storia ma, al contrario, l’inserimento di elementi ulteriori che tengano comunque conto di ciò che già c’era. Ne deriva una stretta interrelazione tra i luoghi e i metodi architettonici applicati e la caratterizzazione dell’architetto come regista tra le cose che deve fare nient’altro che “il possibile necessario”.

E proprio alla luce di ciò si spiega la costante, ferrea, opposizione di Gregotti nei confronti della cosiddetta “liquefazione dell’architettura”, intesa come pura e semplice comunicazione. Gli architetti contemporanei sono il frutto dell’incrocio tra l’orientamento postmoderno e il capitalismo globale, che ha fatto saltare ogni differenza tra le culture. Essi, sempre più spesso, si limitano a creare immagini, riproducendo l’esistente con l’ausilio di un computer, cercando di stupire piuttosto che di presentare progetti realmente avvertiti dei bisogni sociali e dei contesti concreti.

L’architettura non è più considerata “prodotto collettivo” ma puro estetismo e speculazione. Sottolineava a questo proposito lo stesso Gregotti in un’intervista, recentemente rilasciata a La Repubblica che «oggi non ci si preoccupa di rappresentare una condizione sociale collettiva. È andato smarrendosi il disegno complessivo della città, che viene progettata per pezzi incoerenti, troppo regolata da interessi. Si è interpretato in modo ingenuo il rapporto con la storia, non ponendosi nei suoi confronti in termini dialettici, ma adottandone lo stile. E l’involucro è stato considerato indipendente dalla funzione di un edificio».

Lucidamente consapevole degli inarrestabili cambiamenti in atto, nel 2017 l’architetto ha pertanto deciso di chiudere il suo studio, che aveva aperto nel 1974, insieme a Pierluigi Cerri, Pierluigi Nicolin, Hirimochi Matsui e Bruno Viganò, al pianterreno della sua casa milanese, Casa Candiani, un edificio eclettico di fine Ottocento, situato, fra San Vittore e Santa Maria delle Grazie. Molteplici i progetti realizzati in questi anni dalla “Gregotti Associati”.

Sono degni di nota l’ampliamento del Museo d’arte moderna e contemporanea dell’Accademia Carrara di Bergamo (1989), la facoltà di scienze ambientali presso il polo tecnologico Bicocca di Milano (1993), il ponte sul fiume Savio a Cesena (1996-2000), il Museo Guiso a Orosei (1997-2000), l’Acquario municipale D. Cestoni a Livorno (iniziato nel 1997). Tra le opere più recenti vanno segnalati l’ampliamento del Museo dell’Opera di Santa Maria del Fiore, Firenze (2002), la progettazione del nuovo quartiere residenziale nell’area di Pujiang, Shanghai (2002); la realizzazione del nuovo Teatro dell’Opera di Aix-en-Provence (2003-2007); la chiesa di San Massimiliano Kolbe, Bergamo (2008).

Per quanto riguarda poi gli interventi siciliani, ricordiamo tra il 1969 e il 1972, l’ampliamento dei Dipartimenti di scienze dell’Università degli studi di Palermo, presso la quale, tra l’altro, Gregotti ottenne anche una cattedra, e nello stesso periodo la controversa progettazione del quartiere ZEN.

Quest’ultimo, in particolare, era stato inizialmente concepito come parte integrante della città, una prosecuzione, senza soluzione di continuità, del centro storico palermitano. Tuttavia, una siffatta autonomia di vita non si è mai compiutamente realizzata. Prima ancora che fossero terminati i lavori, relativi agli impianti alla rete e alle fognature, gli spogli edifici del quartiere vennero sottratti, con l’indebita intercessione della mafia dei colli, alle famiglie degli aventi diritto e molto presto vandalizzati.

Poco o niente dell’originaria idea di Gregotti venne effettivamente tramutato in realtà. Non vennero inseriti i servizi pubblici, i negozi, le alberature e i campi sportivi: i casermoni di cemento presero le forme di un ghetto periferico e tradirono ogni aspettativa di soddisfacimento della persistente emergenza abitativa.