Meme, lo Xanax contro l’ansia da coronavirus

«Ridiamoci su»: quante volte in questi giorni abbiamo letto questo messaggio sui nostri cellulari, magari in un gruppo Whatsapp, o su qualche altro social. «Ridiamoci su», seguito poi, la quasi totalità delle volte, da un meme ironico e simpatico sulla situazione attuale. E ce n’è davvero una quantità abnorme, per tutti i gusti.

Papa Francesco che dà uno schiaffo alla donna asiatica che lo aveva strattonato («È partito tutto da qui»), Morgan a Sanremo che dice «Che succede?» con tanto di mascherina, emblema dello stato odierno di panico e confusione; l’Amuchina ormai alla stregua dello champagne; «Alla fine noi asociali salveremo il mondo»; «Io è da 30 anni che mi lavo le mani e limito i contatti con la gente»; «Tutta la vita che dite che volete stare a casa a guardare Maria De Filippi e adesso uscite?»; «Si è capito che anche in caso di un’apocalisse le penne lisce fanno schifo a tutti»: sono soltanto alcuni dei centinaia di meme che stanno spopolando su internet in questi giorni.

Ma che cos’è un meme? Tecnicamente è un elemento di una cultura o di un sistema di comportamento trasmesso da un individuo a un altro per imitazione (dal greco mimema, imitazione, esempio). Un meme di internet è un tipo di meme specifico della cultura del web in cui esso nasce e si diffonde.

Il termine è stato coniato nel 1976 dall’etologo Richard Dawkins – riproposto da Mike Godwin nel 1996 – e poi ripreso e analizzato nel 2013 ma in un’accezione diversa: dal punto di vista sociologico e comunicativo, i memi di internet sono elementi modificati dalla creatività umana, che lasciano un’impronta nei media attraverso i quali si propagano e possono essere tracciati e analizzati, sebbene spesso abbiano vita estremamente breve. Alla stessa velocità con cui vengono creati, i meme si auto-dissolvono nella rete, per antonomasia luogo privo di barriere e confini fisici, perdendo quella effimera visibilità che li caratterizza.

Esiste un insieme di studi, che prende il nome di memetica, che si occupa proprio di analizzare l’evoluzione e la diffusione dei memi, intesi come prodotti culturali originati dalla società e scambiati di continuo tra i suoi componenti: essi avrebbero la capacità di replicarsi nei cervelli umani proprio per imitazione, mutando di volta in volta in base al modo di ricezione, assumendo così i caratteri di un’idea che si propaga in mille sfaccettature diverse.

Il meme diventa un fenomeno sociologico, veicolo che consente una diffusione rapida di idee e novità, soprattutto se queste hanno contenuti umoristici; mutatis mutandum, esso diventa riflesso di un’attitudine che pone le proprie origini nella storia più antica; non è un caso che l’ironia sembra essere, da secoli, uno degli strumenti (tra i più efficaci) per tentare di alleggerire situazioni di tensione (politiche, sociali, e non solo): si scherza su tutto, dalla notte dei tempi, e ciò provoca reazioni diverse in ognuno di noi.

È indubbio che, solitamente, la visione di queste frasi e immagini possa provocare sostanzialmente tre reazioni, che sono le stesse da quando l’umanità è venuta a contatto con l’idea primordiale di satira (Giovenale ci insegna): c’è chi si limita a indignarsi subito, inneggiando alla scarsa sensibilità e pochezza d’animo di chi li ha creati o peggio ancora di chi li condivide; c’è chi ride e basta, fermandosi al primo livello di lettura, alla superficiale battuta in sé, al gioco di parole, al paradosso scritto; e c’è chi ride, ma riflette. Sì, perché quella che può sembrare soltanto una frase o un’immagine di cattivo gusto, può nascondere dietro molto di più.

Tralasciando i casi di meme realmente fuori luogo e inopportuni (che la nostra intelligenza ci porta a riconoscere e a scartare), questi prodotti del web altro non sono che un modo rapido e immediato per sdrammatizzare e alleggerire situazioni spesso pesanti e serie. D’altra parte, l’ironia come modo per esorcizzare la paura ha origini antichissime: basti pensare all’antica Grecia dove maschere mostruose e grottesche venivano spesso posizionate all’ingresso dei templi per proteggere dagli spiriti maligni, quindi con una funzione c.d. apotropaica (dal greco apotrépein, allontanare).

Tra i soggetti più utilizzati c’erano le tre Gorgoni (Steno, Euriale e la più famosa Medusa), e vari personaggi antropomorfi quali Fauni, Satiri e Sileni, o immagini di divinità come Bacco o Poseidone; maschere spesso con tratti somatici esagerati, per tenere alla larga le energie negative, o con smorfie di derisione e linguacce provocatorie.

Il riso per sconfiggere la paura, per liberare qualche secondo il cervello dal senso di oppressione e angoscia che in questi giorni attanaglia ogni persona con un minimo di sensibilità. Perché ridere (con consapevolezza) non è superficialità; ridere non è ignorare il problema; è semplicemente un modo sano di affrontarlo, ma soprattutto è un modo di aspettare: aspettare che l’emergenza rientri, cercando di limitare il più possibile il contagio, stando nelle proprie case, limitando le uscite a quando strettamente necessario.

E tutto questo ce lo chiede un Paese in allarme, il nostro, ce lo chiede un sistema sanitario che potrebbe collassare, ce lo chiede la nostra responsabilità e il nostro senso civico: ce lo chiede la nostra intelligenza.

Quindi non scandalizziamoci se ci viene da ridere vedendo un meme su Instagram, piuttosto indigniamoci per chi non ha voluto rinunciare agli aperitivi, alla movida, per chi crea allarmismo e diffonde fake news, per chi crea assembramenti che sono potenziali focolai del virus, per chi non rispetta e non fa rispettare le norme di sicurezza, per chi assalta i supermercati in modo del tutto immotivato. Ridete e condividete i meme, ma fatelo da casa vostra; del resto, come ci ricorda il web in questi giorni, «ai nostri nonni è stato chiesto di andare in guerra, a noi soltanto di restare a casa sul divano»: è un sacrificio che possiamo sopportare.