«L’America mi ha dato tutto»: storia di un’italoamericana

Di Ester Di Bona – Il fenomeno dell’Emigrazione Italiana che vede differenti periodi di flussi a partire dalla metà dell’ ‘800, ha stravolto e cambiato radicalmente milioni di vite e la crescita dell’Italia. Durante il secondo periodo conosciuto come Migrazione Europea, che prende piede nel dopoguerra, tantissimi italiani hanno scelto (o sono stati costretti) a rielaborare la propria vita, imparare una nuova lingua, crearsi una nuova identità e far fronte a numerosi disagi, anche e soprattutto una volta tornati in patria.

La testimonianza di M., un’italoamericana attualmente residente in Italia, ci racconta le difficoltà e i sentimenti verso le due nazioni, nativa e adottiva, che fanno comunque parte della sua persona.

«Sono nata ad Istria negli anni ’40 e ne sono molto orgogliosa.

Senza titoloMio padre divenne comunista durante l’occupazione jugoslava con Tito. In quegli anni a noi italiani veniva chiesto se volevamo restare in Istria e diventare “Titini“, cioè “gente di Tito”, che poi sarebbero diventati comunisti iugoslavi, oppure se rimanere italiani, ma andare via.

Mio padre optò per restare italiani e fuggire via, portò con sé solo pochi mobili. Lasciammo la casa, il terreno e le nostre cose lì. Era un produttore di vino, aveva il frantoio per le olive e tutti i macchinari per lavorare.

Appena arrivati a Trieste, ricordo ci accolsero con “Porci italiani”.

Io e la mia famiglia non siamo mai andati nei campi profughi, mio padre aveva una sorella in Lombardia disposta ad ospitarci e per i primi tempi siamo stati lì.

I miei genitori presero un ristorante e cominciarono a lavorare con quello, io e mio fratello andavamo a scuola. Era comunque una nuova vita molto difficile da gestire, non era facile cominciare da capo in quelle condizioni. Dopo un annetto circa mio padre disse di non reggere più la situazione, lasciò il ristorante e ci trasferimmo a Monfalcone. Lì aveva preso un distributore di legno a carbone e delle bombole. Erano anni difficili, in cui la gente non aveva soldi per pagare.

IMG-20181111-WA0007Nel ’56 abbiamo avuto il privilegiodi andare in America, grazie al contratto di lavoro di mia madre che era sarta: ottenne il “cartellino verde” per il trasferimento.

Appena sbarcati eravamo una gran novità. C’era la nostra foto perfino sul giornale, quando siamo scesi dal treno da New York a Philadelphia.

A chi aveva dei soldi da parte veniva marcato il passaporto e portato direttamente in un appartamento con un affitto da pagare. Chi non ne aveva veniva portato in un convento di suore. La gente portava vestiti, giocattoli, cibo, erano molto generosi nei nostri confronti. Io e la mia famiglia stavamo in un appartamento.

1A volte si vedeva in giro qualcuno a cui non piacevano gli italiani, qualche ignorantea volte urlava “Venite qua a rubarci il lavoro”. Ma la maggior parte degli americani comunque ci ha riservato un ottimo trattamento.

Sono arrivata in America a 15 anni. Richiedevano, per l’ammissione alla scuola pubblica, che imparassimo durante il periodo estivo la lingua in maniera autonoma, cosa fisicamente impossibile. Mi rifiutai e passai un annetto circa in una scuola cattolica, molto rigida. Lì eravamo tutti stranieri, e ci veniva insegnato l’inglese. Andavi via solo quando eri pronto. L’anno successivo al mio arrivo in America mi sono iscritta finalmente alla scuola pubblica.

La vita è passata serenamente e senza troppi problemi.

Il lavoro non è mai mancato. Quando ho cominciato a fare la rappresentante di un’importante industria di produzione alimentare, non pensavo di avere gli attributi necessari essendo donna. Nella compagnia nazionale dove lavoravo c’ erano 11 uomini, e io ero l’unica donna. Il mio capo credeva molto in me.

2.pngDiversi anni dopo ho preso la cittadinanza americana. Poi per la longevità della vita dei miei genitori, che erano intanto tornati a Monfalcone, ho lasciato il mio lavoro in America, non avendo figli ed essendo sola dopo la morte di mio marito, sono tornata in Italia per dedicarmi alla loro cura.

Sono stata accolta in Italia da Extracomunitaria, perché ero ai tempi solo cittadina americana, ancora non esisteva la doppia cittadinanza (che attualmente invece ho).

Quando andai a richiedere il permesso di lavoro, mi dissero: “Signora, lei è cittadina extracommunitaria. Ma non un extracommunitaria del terzo mondo, ma del quarto. Purtroppo la legge è così”. Dopo diversi concorsi, ricominciai a lavorare per un armatore americano.

Anche la patente qui non veniva riconosciuta. Ho dovuto rifare l’esame.

Attualmente sono felice, ho visto quasi tutta l’America grazie al lavoro, vivo in Italia e sono in pensione. Ogni tanto torno a trovare mio fratello in Florida.

L’America mi ha dato tantissimo, mi ha resa la persona che sono oggi, non sopporto quando viene denigrata ingiustamente, così come quando all’estero si parla male dell’Italia.

Sento di appartenere ad entrambe le nazioni, ma dentro mi sento più vicina all’America, che mi ha davvero dato tutto».