Kubrick, il cacciatore di sguardi

Forse non tutti sanno che Stanley Kubrick, prima di diventare un genio in grado di rivoluzionare il mondo del cinema, ha avuto un passato – tanto breve quanto intenso – da fotografo. Tra il 1945 e il 1950 (quindi dai 17 ai 22 anni), infatti, ha lavorato prima come semplice apprendista e poi come fotoreporter per il magazine Look (storico antagonista dell’avversario Life, di Henry Luce).

A soli diciassette anni l’adolescente Stanley girava per i vicoli di una New York post Seconda guerra mondiale cercando di catturare quello che più lo affascinava, cioè l’umanità nelle sue mille sfaccettature ed espressioni quotidiane, con particolare attenzione agli sguardi delle persone. Il giovane Kubrick era ancora “inconsapevole” dell’originalità del suo punto di vista sulla realtà.

Sapendo questo, è come se in un colpo solo si mettessero insieme i pezzi di un puzzle: come in una sorta di epifania si riesce a capire (o almeno, si prova a capire) l’essenza del suo genio, nato attraverso la lente, già dalla prima Graflex regalatagli dal padre a tredici anni.

La fotografia, infatti, è un’arte che ha il preciso intento di catturare un istante, quell’istante che serve a creare lo scatto perfetto. E Stanley questo lo sapeva bene: la fotografia fu un ottimo allenamento per la sua indole maniacale da perfezionista, capace di ripetere una scena anche centinaia di volte, finché non avesse ottenuto proprio ciò che voleva rappresentare: «Se può essere scritto, o pensato, può essere filmato», è una delle sue frasi più celebri (non è un caso che tutti i suoi lavori siano tratti da libri).

Fondamentali nel suo cinema sono, e saranno sempre, gli occhi, e in senso lato, lo sguardo: non solo quello degli attori e delle attrici impegnati sul set, ma anche i suoi stessi occhi; gli occhi di un regista onnisciente, un burattinaio, che da dietro la macchina da presa è capace di creare e distruggere al tempo stesso.

Non è un caso che le immagini maggiormente iconiche dei suoi film siano sempre primissimi piani, generalmente con la testa rivolta verso il basso e gli occhi che guardano verso l’alto (in una posa conosciuta come “la faccia Kubrick”): pensiamo alla bellissima Alice (Nicole Kidman) in Eyes Wide Shut che guarda il marito Bill (Tom Cruise) da dietro i suoi occhialini tondi, con sensualità e lascivia; pensiamo allo sguardo allucinato di Alex in Arancia Meccanica (ripreso in Full Metal Jacket da un giovane Vincent D’Onofrio, il “soldato Palla di Lardo”, nella celebre scena del bagno), marcato da matita nera e contornato da ciglia scurissime; e ancora, la locandina di Lolita con il suo ammiccante lecca-lecca a forma di cuore.

Sono tutti visi che presentano il mento rivolto verso il basso e gli occhi in alto che fissano la macchina da presa, quindi lo spettatore.

Ma cosa c’è dietro uno sguardo, dietro questi sguardi? In realtà può esserci qualsiasi cosa: c’è la violenza gratuita e fine a se stessa di Alex, c’è la perversione della giovane Lolita, c’è la pazzia del Jack di Shining e del soldato Palla di Lardo, il desiderio sessuale frustrato di Alice; queste, e ogni altro aspetto della mente umana che il regista voglia mostrarci e trasmetterci in quel momento.

Noi dobbiamo stare al gioco, perché non possiamo fare altrimenti: senza rendercene conto, anche noi incliniamo la testa quando Stanley nel suo ultimo lavoro (Eyes Wide Shut) abbassa di colpo l’inquadratura accompagnando i movimenti convulsi di una Alice che perde l’equilibrio (complice la marijuana appena fumata), ridendo fragorosamente e finendo sul tappeto; anche i nostri occhi percorrono i corridoi dell’Overlook Hotel dal punto di vista del piccolo Danny, cioè dal basso del suo triciclo, nell’inquietante Shining.

E ancora, gli zoom tattici di Barry Lyndon ci fanno cogliere la maestosità di una scena che ci avvolge. Inconsapevolmente il regista fa entrare lo spettatore nella pellicola, e lo fa diventare parte di esso. Kubrick non si accontenta di dirigere gli attori sul set, lui vuole dirigere anche chi guarda: burattinaio a 360 gradi dei personaggi, degli interpreti, e degli spettatori. È lui che decide dove farci guardare, cosa farci guardare, e soprattutto come.

In Arancia Meccanica sono ancora una volta gli occhi a farla da padrone, diventando il mezzo di trasmissione per attuare il lavaggio del cervello di Alex: il “programma Ludovico”, per tentare di reprimere la violenza incontrollata, consiste, infatti, nel far scorrere ininterrottamente e ripetutamente immagini di una crudeltà inaudita (con sottofondo la nona sinfonia di Beethoven), con lo scopo di causare una terribile nausea alla vista di atti violenti, arrivando così a provare repulsione per gli stessi.

Non possiamo sfuggire da quello che vediamo. Possiamo ignorarlo, certo, ma non sfuggirvi. È quello che accade in Shining, dove la mente già molto compromessa di Jack (Jack Nicholson) finge di non curarsi delle immagini terribili di quanto accaduto poco tempo prima all’hotel, posto poi impazzire lui stesso. Accade al professor Humbert quando guarda con desiderio il corpo di Lolita stesa in giardino, consapevole dei suoi pensieri malsani e perversi, ma che non può reprimere. Accade a Bill, incantato dal fascino dei corpi nudi intenti nell’atto dell’accoppiamento nelle sue forme più animalesche, emblema di ciò a cui lui stesso vorrebbe abbandonarsi.

Sguardi folli, frustrati, repressi, perversi, spaventati, tutti in qualche modo deviati: gli sguardi di Kubrick sono il dono di un genio a noi osservatori affamati e attenti, finestre che si affacciano in mondi assurdi e distopici, che altro non sono che la proiezione di istinti sopiti e nascosti.