Volevano la pace e invece ha vinto Netanyahu

Di Maddalena Tomassini – Il quinto mandato per Benjamin Netanyahu sembra ormai inevitabile. Non basta il pari e patta strappato dal suo avversario Benny Gantz, che con il 94% dei voti scrutinati si è assicurato 35 seggi della Knesset: Netanyahu ha tutte le alleanze necessarie per chiedere al presidente Reuven Rivlin il mandato per formare il governo.

Le speranze di chi immaginava un’Israele «Netanyahu-free» hanno iniziato a dissolversi al chiarore di oggi. Benny Gantz è stato il primo vero avversario di Netanyahu in 13 anni di governo, e anche lui sembra non avercela fatta, così come non sono bastate le accuse di corruzione a smantellare il potere del premier uscente.

«Quello che è certo riguardo a queste elezioni» afferma Adam Keller, portavoce dell’ong israeliana Gush Shalom (Peace Bloc) «è che sono state condotte in modo sporco. C’è stato un livello davvero basso di dibattito, con insulti e attacchi personali, demagogia».

Prima di continuare sono necessarie due precisazioni. Primo: la divisione che separa ebrei israeliani e arabi musulmani in due blocchi monolitici non ha riscontro nella realtà (due esempi: ci sono ebrei che quando sono arrivati in Israele parlavano in arabo ed esistono palestinesi cristiani che si considerano i discendenti dei primi cristiani e si offendono se interrogati su una loro presunta conversione). Secondo, come spiega Keller, «in Israele il primo aspetto che definisce l’essere di destra o di sinistra è come ci si rapporta ai palestinesi».

Fatte queste premesse, torniamo a ieri. Gli aventi diritto al voto erano chiamati a scegliere 120 rappresentati. Il sistema di voto è proporzionale, la soglia da superare il 3,25% e il numero dei seggi necessari a formare un governo 61. Intorno ai principali partiti, il Likud dell’inamovibile Benjamin Netanyahu e il Partito blu e bianco di Benny Gantz e Yair Lapid, si affollano un gran numero di partiti minori che lottano per superare la barriera, un tempo molto più bassa (prima del 1992 era fissata all’1%).

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L’ufficiale militare Benny Ganzt

Netanyahu era dato come favorito: fresco dell’assist di Donald Trump – che il mese scorso gli ha “regalato” le alture del Golan, riconoscendone la sovranità israeliana – il premier ha facili alleati alla sua destra. All’altro lato del ring, Benny Gantz. Classe 1959, in passato capo dell’esercito, ha basato la sua intera campagna elettorale sullo slogan “qualcuno deve fermare Netanyahu”. In caso di improbabile vittoria, dividerà il mandato con l’alleato Yair Lapid.

Fuori dal braccio di ferro restano il Partito Laburista, al potere nei primi decenni di esistenza di Israele, e ora spinto ai margini. In ancora più difficile acque navigano i partiti arabo-israeliani, nonostante i loro elettori compongano circa il 17% dei votanti. La Lista Unita si è scissa in partiti minori e più vulnerabili, e dai risultati che emergono è probabile che uno di essi non abbia superato la barriera dei 3,25%. Un dato che non sorprende: si prevedeva una bassa affluenza fra i palestinesi di Israele, scettici e disillusi, e così è stato.

Il futuro del dialogo con i palestinesi non profuma d’ulivo. La speranza degli attivisti per la pace era di liberarsi di Netanyahu, il cui atteggiamento ostile ha raggiunto nuovi picchi grazie all’incoraggiamento e sostegno di Donald Trump. Tre giorni prima delle elezioni Netanyahu dichiarava di voler annettere gli insediamenti. In precedenza aveva sottolineato che Israele è esclusivamente ebraica. Dall’altro lato, Gantz non è certo un campione del dialogo: in campagna elettorale si è vantato di aver rispedito pezzi della Striscia di Gaza all’età della pietra.

«Ci sono due modi di guardare alla situazione» commenta Keller, riferendosi al leader blue-bianco. «C’è quella ottimista: esagera le dichiarazioni di destra per attirare voti di destra, ma se e quando sarà eletto non sarà ‘così tanto’ di destra. La meno ottimista è che parla così perché è ciò che realmente pensa. In quel caso, non ci sarebbe grande differenza con Netanyahu».

Jerusalem_Dome_of_the_rock_BW_3In questo quadro rientrano anche gli israeliani di origine mediorientale. «Gli ebrei che vengono dai Paesi del Medio Oriente sono più poveri, hanno standard di vita più bassi» spiega Keller. «In generale, sono ostili verso il Partito laburista, perché era al potere quando Israele è stata creata, nel 1948. Loro arrivarono negli anni ’50, e hanno sempre sentito di essere stati discriminati e, per questo, tendono a votare per il Likud. È uno dei tanti paradossi della società israeliana: gli ebrei che sono culturalmente più vicini agli arabi sono quelli che sostengono il partito più aggressivo verso gli arabi».

Ora, la speranza degli israeliani che guardano alla pace è che entrino nella Knesset voci in grado di mostrare al pubblico israeliano politiche alternative significative per la pace. «Sappiamo che rimarranno una minoranza – conclude Keller – ma vogliamo preservarle per il futuro, e speriamo che prima o poi ci sarà un cambiamento. Ma, certamente, non accadrà con queste elezioni».