Referendum, quelli del No

La “Riforma Renzi-Boschi” che verrà sottoposta al giudizio popolare è sostanzialmente un disegno di legge passato in Parlamento ma bloccato causa mancato raggiungimento dei 2/3 necessari di voti favorevoli per l’approvazione di una legge di modifica costituzionale. Se il Parlamento rispecchia l’opinione degli Italiani – e se decidiamo, paradossalmente, che questo organo è legittimamente in carica nonostante l’applicazione di una legge elettorale incostituzionale e dunque ampiamente criticata – siamo davanti una prima risposta al quesito che il 4 Dicembre chiederà agli Italiani se vogliono o se non vogliono che venga modificata la Costituzione dal Governo Renzi: questa riforma non s’ha da fare.

Le dichiarazioni da una parte e dall’altra hanno subìto un vertiginoso abbassamento del livello e della correttezza formale, tanto da influenzare il pubblico dibattito verso un estremo o verso l’altro. Si parla impropriamente di un “Governo non eletto” e capitanato da una “scrofa ferita” quale Matteo Renzi definito anche “serial killer della vita dei nostri figli”. Fetide risultano anche le dichiarazioni del governatore della Campania Vincenzo De Luca sui “fiumi di denaro” che potrebbe mandare Renzi anche e soprattutto grazie al sostegno campano per il alla Riforma. Scandali su scandali, così come quello delle firme siciliane per il Movimento Cinque Stelle, che in un momento di campagna come questo spostano da un lato o dall’altro chi si vuole schierare con una politica più onesta – del momento – e, ad esempio, discostare da quella grossolana di un altro Matteo, Salvini.

Uno degli argomenti di dibattito più insistenti nelle dichiarazioni di eminenti costituzionalisti contrari a questa Riforma è stato l’accordo tra le forze politiche venuto a mancare per un progetto di “aggiustamento” costituzionale che riguarda tutti indistintamente, proprio per la natura di patto sociale, fondativa l’organizzazione, la vita e la convivenza civile dell’Italia, che possiede la Carta costituzionale. Una riforma così ampia – che tocca 47 articoli su 139 – necessiterebbe quanto meno un ampio compromesso e l’adesione di una grossa fetta delle istituzioni elettive, Parlamento e Senato. Un largo consenso al livello direttamente politico che attualmente manca e indebolisce la forza e le argomentazioni che i signori di questo Governo mantengono per mettere le mani sulla Carta di Tutti gli Italiani. Si legge nel documento firmato dai 56 costituzionalisti per il No (in realtà un manifesto per la riflessione sulla Riforma): “La Costituzione, e così la sua riforma, sono e debbono essere patrimonio comune il più possibile condiviso, non espressione di un indirizzo di governo e risultato del prevalere contingente di alcune forze politiche su altre”.

Un caso su tutti per far riflettere sulla potenza e sulla portata di tali riforme è la “modifica del Titolo V” adoperata nel 2001 con una maggioranza risicata. La decisione fu comunque confermata dalla consultazione popolare, ma è opinione comune – anche degli stessi esponenti dell’attuale governo – che quella riforma ha causato più conflitti che miglioramenti del rapporto Stato-Regione in Italia. Una riforma che non sia “pubblicità governativa” ma il risultato di anni di lavoro nel compromesso e nell’accordo politico più ampio possibile è ciò che si auspicano i costituzionalisti del No. Ma non c’è solo l’antipatia per i modi e le parole espresse in campagna referendaria.

Lo spostamento dei “numeri che contano” è certamente una delle cause di esagerazione mediatica che fa urlare i sostenitori più agguerriti del No contro il pericolo autoritario, ma con un fondo – molto profondo – di verità. Si tratta in sostanza della crescente importanza che rivestirebbe il Parlamento a discapito di un Senato decisamente assente all’elezione di organi di garanzia come il Presidente della Repubblica e una parte dell’organo di governo della Magistratura. Un Parlamento, ricordiamolo, che con l’attuale legge elettorale sarebbe di forte impronta maggioritaria, e che rappresenterebbe un mero organo che asseconda il governo. Questa è certamente la ragione più credibile della temuta deriva autoritaria, spaventosa come accoppiata lessicale ma utile per scrivere articoli da prima pagina.

La sostituzione del Senato odierno con un organo fortemente indebolito, pur essendo formalmente ancora rappresentante delle Regioni, risulta un modo improprio di creare quel “Senato delle Regioni ” che Renzi ha fortemente voluto a partire dalle prossime elezioni politiche grazie a questa Riforma. Ciò che sembra non tornare nei conti dei sostenitori del No sarebbe lo svuotamento delle funzioni che i senatori subirebbero, tutto a svantaggio del regionalismo cooperativo tanto invocato – e probabilmente mai arrivato – per la gestione degli affari locali. Si legge nel documento dei “costituzionalisti della riflessione” (fra cui troviamo i nomi di Caretti, De Siervo, Zagrebelsky) che il Senato “non avrebbe infatti poteri effettivi nell’approvazione di molte delle leggi più rilevanti per l’assetto regionalistico, né funzioni che ne facciano un valido strumento di concertazione fra Stato e Regioni ”.

La scelta politica sarebbe sostanzialmente confermata dalle parole dello stesso Presidente del Consiglio quando parla di “smettere con una politica diversa per ogni Regione” e dell’assurdità di “venti politiche sanitarie differenti” e così via per altre critiche che certamente mirano a individuare il problema del caos normativo in cui si trova il lavoro di concerto tra Stato e Regione. Parole che sottolineano l’importanza che questa riforma rivestirebbe per eliminare tante e diverse materie di concorrenza normativa, ma con il costante rischio che – come il Prof. Zagrebelsky ha sottolineato nel duello televisivo con Renzi – la “pluralità di procedimenti legislativi differenziati a seconda delle diverse modalità di intervento del nuovo Senato sia generatrice di incertezze e ulteriori conflitti ”. Insomma un accentramento in nome della velocità e della stabilità che però scavalca la voce delle Regioni (lasciando esattamente dov’erano quelle a Statuto Speciale), la voce del Territorio, e la parallela rinuncia alla costruzione di strumenti efficaci di comunicazione e attuazione tra centro e periferia.

Importante è l’aspetto della mancata suddivisione dei quesiti referendari. Nell’espressione su un unico quesito, di approvazione o no dell’intera riforma, l’elettore è costretto ad un solo voto su un testo non omogeneo, situazione che fa emergere ragioni “politiche” estranee al merito della legge. In parole povere: la separazione dei quesiti all’interno dello stesso referendum avrebbe permesso una decisione più mirata e obiettiva sul contenuto di ogni richiesta di modifica costituzionale. Così come significativo è il ritorno alla personalizzazione di questo referendum ad opera dello stesso Presidente del Consiglio. “Se vince il No vado a casa ”. Una mossa che fungerebbe da spauracchio economico dovuto all’instabilità politica post-No, (ed anche quella della spaventosa reazione dei mercati in conseguenza al voto una balla come tante per votare da una parte o dall’altra!) circostanza nei fatti poco credibile: c’è la forte probabilità che si giunga in entrambi gli esiti del referendum a una situazione di ingovernabilità – e quindi di nuove elezioni – dovuta da un lato al mancato sostegno popolare per la riforma di iniziativa governativa, dall’altro causata dalla presenza di un Senato che così come voluto dalla Costituzione del ’48 non vorrebbe nessuno.

Fallace è anche la retorica dei “63 governi in 70 anni” che non tiene conto della continuità politica e della sola discontinuità tra premier (sempre più o meno della stessa coalizione partitica). Dichiara Marco Travaglio, direttore del Fatto Quotidiano: “tutti sanno che, fino all’avvento di Berlusconi, l’Italia è stata governata per più di cinquant’anni dalla stessa maggioranza imperniata sulla Dc e i suoi alleati, sia pure con diversi premier. Il cadere continuo dei governi è piuttosto allora da additare a dinamiche interne della politica o di un partito e non al testo costituzionale ”.

Altra storiella, di apprezzabile intenzione, è quella dei risparmi sulla politica, sul taglio dei costi di questi senatori spreconi e costosissimi. Alludendo al prezzo che avrebbe la nostra democrazia, scrive Travaglio “La riduzione dei senatori e il non pagare loro indennizzi viene venduto come abbattimento dei costi, quando in realtà si risparmiano solo 50 milioni di euro. Ora la domanda è: ma la non elettività del Senato vale appena 50 milioni di euro?”.

Daniele Monteleone


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