Quei mostruosi carabinieri di Piacenza non sono «poche mele marce»

 

Mentre gli italiani morivano di covid, un gruppo di carabinieri di Piacenza faceva affari “come in Gomorra”. Ma non chiamateli “poche mele marce”.


«Abbiamo fatto un’associazione a delinquere, siamo irraggiungibili» dicevano gli arrestati. E invece li hanno beccati, dopo un’indagine durata circa sei mesi, fra microspie e intercettazioni. A Piacenza, l’inchiesta portata avanti nell’ambito dell’operazione Odysseus ha portato al sequestro della caserma dei carabinieri di via Caccialupo, chiamata “Levante”. Un sequestro senza dubbio storico, visto che si tratta del primo provvedimento di questo genere, in Italia, applicato per una caserma, una casa della legalità.

I dieci militari raggiunti da provvedimenti di custodia cautelare – di cui cinque già in carcere – fanno parte dei 22 indagati in totale. In pratica è stata tirata giù un’intera caserma perché parte di un organizzato sistema criminale. I reati riscontrati e oggetto dell’accusa sono molti e fa effetto sapere che quelli più gravi siano stati compiuti durante il lockdown: traffico di sostanze stupefacenti, estorsione, ricettazione, abuso d’ufficio, falso ideologico, truffa ai danni dello Stato, violenza privata, arresti illegali e tortura.

Dalle intercettazioni diffuse in questa settimana, in cui il caso della “piramide” piacentina del crimine in divisa è diventato ormai cosa nota, emerge un quadro criminale molto ampio e in sinergia con le attività parallele dei militari. I carabinieri della “Levante” portavano avanti un business della droga in maniera del tutto connivente con gli altri contatti criminali della città, sfruttando come base operativa proprio la caserma, oltre che le proprie abitazioni.

I risultati delle indagini della Guardia di Finanza raccontano uno spaccato di criminalità indisturbata, con i protagonisti convinti di essere “irraggiungibili”. I dieci carabinieri accusati di svariati reati e, a tutti gli effetti, facenti parte di una banda criminale, contavano sul fatto che la divisa e il sistema intorno a loro li avrebbero protetti da qualsiasi intoppo. Un comportamento che, come affermato dalla procuratrice Grazia Pradella, «non aveva nulla di lecito», che è stato portato avanti proprio grazie allo “schermo” fornito dalla divisa e da quella cordialità mostrata tutti i giorni fra le aule di tribunale, le stesse che adesso li accoglieranno, ma come imputati.

«In poche parole, abbiamo fatto una piramide: sopra ci stiamo io, tu e lui, ok? Siamo irraggiungibili, ok? A noi non ci deve cagare nessuno», si raccontavano gli intercettati dopo essere riusciti ad agganciare uno dei “pezzi grossi” dello spaccio a Piacenza. «Siccome è stato nella merda, e a Piacenza comunque conosce tutti gli spacciatori, abbiamo trovato un’altra persona che sta sotto di noi». Così il gruppo di carabinieri riusciva a garantirsi un passaggio sicuro della droga, dall’hashish alla marijuana, estorcendola agli arrestati, sottraendola dalle partite sequestrate e facendo partire la catena di spaccio direttamente dalla “base”.

La catena di distribuzione aveva nel gruppo di carabinieri il vertice di comando. Si vendeva la “loro” roba; o si faceva come dicevano loro, o erano mazzate. Curavano l’approvvigionamento durante il lockdown, tenevano i contatti con spacciatori di livello, svolgevano le attività di staffetta per conto degli spacciatori e custodivano la droga. E, come la maggior parte dei tutori dell’ordine che hanno a che fare con arresti e sequestri, sapevano bene come sfruttare il sistema: «L’erba non è come il fumo che rimane lo stesso peso, l’erba diventa sempre più leggera, quindi, con l’erba, non ti sgameranno mai», dice uno di loro intercettato.

Ma non erano solo dei criminali e carabinieri, erano anche dei violenti, dei mostri. Il 27 marzo vengono intercettati dopo il fermo di un immigrato. «Ragazzi prendetegli lo Scottex che abbiamo nella palestra così si pulisce. Prendilo e portalo qua… perché si deve almeno pulire». Chissà quanto altro sangue aveva visto il pavimento della caserma prima di quel pestaggio. Si legge nella descrizione della procura di questo particolare ed esemplare episodio: «Nel corso dell’arresto lo spacciatore […] subisce una serie di percosse, finalizzate all’ammissione del reato e alla rivelazione dei luoghi dove egli detiene la sostanza stupefacente. Ottenuta in maniera coercitiva l’informazione viene accompagnato presso la propria abitazione per consegnare lo stupefacente ai militari […] ricondotto in caserma, subisce nuovamente percosse».

Su un vero e proprio episodio di estorsione ai danni di un concessionario, un carabiniere intercettato si vanta dei suoi metodi criminali per ottenere un’automobile – un’Audi – a prezzo stracciato: «No, non hai capito? Hai presente Gomorra? Le scene di Gomorra, guarda che è stato uguale. Ed io ci sguazzo con queste cose. Tu devi vedere gli schiaffoni che gli ha dato».

Nonostante autorità e politica provino puntualmente a isolare questi episodi facendoli rientrare nella solita retorica delle “poche mele marce” – le quali “non devono intaccare la fiducia nell’Arma” – dovremmo affrontare quello della criminalità indisturbata e consapevole (in divisa) come un problema serio, da punire duramente, abbattendo tutti quei sistemi di protezioni e depistaggi a difesa dei militari e non facendone un tabù, atteggiamento che, contrariamente, aumenta la sfiducia, non solo nelle forze dell’Ordine ma anche nella Giustizia.

L’ingiustizia non è solo quella del caso di Stefano Cucchi; non sono pochi i casi che hanno visto come protagonisti tutori dell’ordine indisturbati e protetti proprio dalla divisa che indossavano orgogliosamente. Viene in mente il delitto Mollicone del 2001, recentemente discusso per l’arrivo dell’udienza preliminare che vede accusati dei carabinieri di omicidio e occultamento di cadavere, oltre che di numerosi depistaggi – alcuni davvero vergognosi, come quello ai danni del padre, morto da poco tempo – tutti all’interno di un sistema che ha protetto gli agenti per molti, troppi anni.

Nel 2013 quattro poliziotti in servizio alla Questura di Piacenza sono stati arrestati perché acquistavano e vendevano cocaina. A Roma, nel 2016, sono stati beccati tre carabinieri che gestivano un giro di spaccio, con le stesse modalità (non a caso) dei piacentini: rubavano la droga sequestrata e la consegnavano ai pusher pretendendone il guadagno. Ma sono decine e decine le indagini che hanno portato a inchiodare tutori dell’ordine che di “tutela” non avevano neanche un bottone della divisa. Senza contare l’elenco infinito di reati e uccisioni perpetrati (e spesso rimasti impuniti) da militari in servizio e, in molti casi, negli stessi ambienti che dovrebbero simboleggiare “la sicurezza”. Si tratta sempre di tanti «errori» o di «pochi elementi», o ancora, dobbiamo pensare che costoro «non sono carabinieri»?

E invece sono carabinieri – o tutori di un qualsiasi altro corpo di polizia –, con la propria divisa, consapevoli del proprio ruolo e delle proprie mansioni, affamati di potere e di denaro, ben al di sopra di ogni possibilità rispetto alla propria modesta busta paga. Questi delinquenti sono carabinieri come tanti altri, ancora nascosti e protetti, e non sono casi isolati, così come i mariti assassini non sono dei pazzi colpiti da raptus violenti, come i terroristi di qualsivoglia gruppo non sono dei pazzi invasati. Il tempo delle giustificazioni dovrebbe essere finito da un bel po’, ma forse non sarebbe dovuto neanche cominciare. Ma soprattutto, come si definiscono gli esseri deformi e orrendi, sono dei mostri che hanno piegato e calpestato la propria divisa e, quindi, la propria persona, per interessi particolaristici, sporcandola ripetutamente di sangue e di soldi criminali.