Non tutte le voci contano: nuovo attacco all’autonomia di Hong Kong

 
 
 

Un altro giro di vite, un altro tentativo di pressione, un altro attacco alla libertà di protestare: Hong Kong è di nuovo in fermento, contro l’ultimo tentativo della Cina di rimuovere l’autonomia della città. E questa volta potrebbe essere decisivo.

Dalla scorsa settimana, nel bel mezzo della confusione mediatica generale monopolizzata dalle notizie sul Covid-19, il governo cinese starebbe provando a far valere la sua autorità al di sopra del governo locale di Hong Kong, allo scopo di approvare una legge sulla sicurezza nazionale, tematica sulla quale normalmente è chiamato a legiferare il potere della città autonoma.

La legge prevederebbe un giro di vite contro la possibilità di organizzare proteste e contro qualsiasi attività di carattere sovversivo o secessionista; inoltre, prevederebbe anche di limitare l’influenza di paesi stranieri sulla politica interna, visto che, secondo le affermazioni del governo cinese, dietro alle numerose proteste dei cittadini di Hong Kong vi sarebbe anche l’appoggio di varie potenze internazionali.

Se questa legge dovesse passare, si tratterebbe di un’ulteriore limitazione della già ridotta autonomia della città di Hong Kong. A partire dal 1997, la città vive un modello particolare, “un paese, due sistemi”, che la rende parzialmente autonoma a livello di sicurezza del territorio e di politica estera. Il governo cinese avrebbe la possibilità di imporre la propria volontà in questi ambiti, ma fino ad ora non aveva mai provato ad esercitare questo diritto; nel 2003 era stata valutata un’opzione molto simile a questa che fu però ostacolata dalle proteste di 500mila persone.

Dopo il “movimento degli ombrelli” del 2014, un altro ciclo di proteste è iniziato l’anno scorso a partire dalla proposta del controverso disegno di legge sull’estradizione, ovvero di un accordo con il governo di Pechino che avrebbe garantito a quest’ultimo la prerogativa di estradare i soggetti accusati di reati gravi, come l’omicidio e lo stupro, per i quali la pena prevista sia pari o superiore a sette anni di reclusione.

Il timore era che dietro quell’atto, volto apparentemente a normalizzare le relazioni diplomatiche tra Pechino e Hong Kong, si nascondesse la possibilità da parte del governo cinese di minacciare prigionieri politici e altri soggetti scomodi attraverso accuse pretestuose. Le proteste dell’anno scorso hanno costretto il capo esecutivo di Hong Kong Carrie Lam a ritirare il disegno di legge. Allo stato attuale, tuttavia, è più difficile che le proteste contro il nuovo disegno di legge sulla sicurezza sortiscano lo stesso effetto.

Nonostante il Covid-19 abbia a malapena toccato Hong Kong (con 1000 contagi e 4 morti), il governo cinese ha deciso di posticipare ogni incontro pubblico al 5 Giugno, mantenendo la quarantena fino a quel giorno. La data è significativa: il 4 Giugno ricorre la data di ricordo del massacro di Tienanmen e questa sarebbe la prima volta dal 1989 senza alcuna celebrazione pubblica.

Le restrizioni imposte dalla pandemia non hanno fermato né l’organizzazione delle celebrazioni né soprattutto le proteste. C’è però chi preannuncia la “fine di Hong Kong”, dal momento che l’esito più probabile di questo processo politico potrebbe essere un controllo totale della Cina sulla città autonoma, che non potrebbe più protestare contro il governo centrale di Pechino a meno che non intenda creare una situazione simile a quella del Tibet. Intanto, il governo cinese chiede alle ambasciate straniere a Hong Kong di appoggiare in toto la legge; dal canto loro, gli Stati Uniti hanno già dichiarato la loro preoccupazione in merito alle azioni della Cina e hanno affermato di tenere sott’occhio la situazione sul territorio.

Da parte di Pechino, questo è solo l’ennesimo tentativo di censurare le voci di protesta a favore di Hong Kong. Basti pensare a un episodio particolare, avvenuto nell’Ottobre del 2019 a Taipei, durante un torneo del gioco di carte online Hearthstone. In quell’occasione un giocatore proveniente da Hong Kong, conosciuto come Blitzchung, fu squalificato per aver mostrato una maglietta a favore delle proteste antigovernative di quell’anno; i due cronisti, che si girarono dall’altra parte per permettere al giocatore di protestare, furono licenziati.

La Blizzard, compagnia proprietaria del gioco, ricevette lamentele e pressioni dal governo cinese e decise di cancellare la sua vittoria a quel torneo, causando una protesta che vide persino il Congresso degli Stati Uniti in difesa del giocatore. La frase che contraddistingue i prodotti della compagnia è “Every voice matters“: quasi ironica, dunque, la risposta alle affermazioni di quel giocatore. E così simile a quella che la Cina, oggi, sembra usare con Hong Kong, ormai sempre più in bilico nella sua autonomia, con il rischio di una situazione simile a quella del Tibet.