La Turchia dopo il referendum e le conseguenze di un presidenzialismo autocratico

Dopo la vittoria del Presidente Erdogan al referendum, tenutosi il 16 Aprile, nuovi scenari si prefigurano per la politica turca, sia da un punto di vista domestico sia alla luce di una prospettiva internazionale. Appare utile, dunque, operare un breve confronto tra le caratteristiche del sistema statale antecedente e quello attuale, per comprendere le conseguenze delle modifiche apportate dalla riforma e le attuali prospettive nello scenario globale.

Com’è noto, la riforma ha completamente stravolto la forma di governo, convertendola da parlamentare a presidenziale, ponendo Erdogan alla guida del potere legislativo, esecutivo e giudiziario, e legittimando un assolutismo, scevro da qualsivoglia tipo di controllo. Infatti, un sistema presidenziale potrebbe, certamente, garantire il rispetto dello stato di diritto, dei principi democratici, dei diritti umani e delle libertà fondamentali, nonché assicurare l’applicazione di un sistema di pesi e contrappesi; tuttavia, la tendenza autarchica del Capo di Stato, non lascia alcun dubbio sulla svolta autoritaria che assumerà il potere: un presidenzialismo assoluto celato sotto la brillante veste della democrazia. La possibilità di nominare e licenziare i Ministri, i vertici dell’Esercito e dei Servizi Segreti, nonché la facoltà di emettere Decreti Presidenziali senza alcun passaggio parlamentare sono soltanto alcuni dei problematici fattori di rischio alla base di un lampante conflitto di interessi.

La preoccupazione di fondo, dunque, non riguarda semplicemente la concentrazione di potere nelle mani di un singolo soggetto, ma pone l’accento sui diversi settori in cui la riforma interviene: sembra non resti alcuno spazio per una riflessione imparziale su temi politici e sociali; anche il settore dell’istruzione è, infatti, travolto dall’emendata costituzione, le scuole e le università – luoghi sacri del pensiero libero – saranno gestite da Rettori nominati dal potere centrale e, inevitabilmente, saranno condizionate al rispetto e alla diffusione delle ideologie presidenziali. La politica interna turca, così com’è ridefinita dalla riforma, sembra si allontani dalle conquiste democratiche della società moderna e pare essere travolta dall’effetto domino protezionista che, dagli Stati Uniti, passando per la Brexit e per le elezioni francesi attualmente in corso, mina i principi cardine sui quali è stata costruita l’apparente pace e sicurezza globale.

La maggioranza con cui il Presidente è riuscito a far approvare la riforma è minima: 51,3% contro il 48%, che, sebbene rappresenti la volontà di una fetta consistente della popolazione turca, risulta insufficiente per porre fine alla deriva autocratica di Erdogan; il referendum turco può essere considerato l’emblema di una società profondamente spaccata e contraddittoria, priva di una reale leadership che miri alla realizzazione dei principi democratici e del diritto internazionale.

L’opposizione, nel frattempo, ha chiesto una nuova conta dei voti, diffidando su quanto dichiarato dal Governo turco: com’è noto, il risultato dei sondaggi lasciava trasparire uno scenario oscillante, ma la carcerazione ingiustificata sia di alcuni leader contrari alla politica presidenziale, sia di reporter anti-sistemici, ha contribuito a mettere in luce la possibile falsificazione del risultato referendario.

Gli Stati Membri dell’Unione Europea, hanno reagito al referendum turco dividendosi, sostanzialmente, in tre posizioni che muovono tutte dalla disapprovazione circa il contenuto della riforma, ma divergono nei contenuti delle contro-risposte prospettate.

Linea dura è l’imperativo di Austria e Pesi Bassi: la prima, sotto pressione dell’estrema destra xenofoba, ha criticato duramente l’accordo UE – Turchia, in materia di gestione dei migranti; analogamente, nei Paesi Bassi, gli ultimi sondaggi hanno visto in testa il partito populista con Geert Wilders in testa e, adottando anch’essi una linea intransigente, hanno cacciato i Ministri che volevano tenere comizi nel Paese.

La seconda linea di reazione è rappresentata dalla posizione di Francia e Germania: sia il Presidente François Hollande, sia la Cancelliera Angela Merkel hanno reagito al risultato del referendum turco attraverso un ultimatum diplomatico, specificando che qualora Ankara dovesse reintrodurre la pena di morte, si creerebbe una profonda rottura con i valori dell’UE e, inevitabilmente, la morte del “sogno europeo”. La reintroduzione della pena di morte, infatti, costituirebbe una manifesta violazione dei diritti dell’uomo e il compimento di questi atti,renderebbe inammissibile ogni richiesta di adesione, in quanto contrastante con quanto previsto dai Trattati in materia di ammissione dei nuovi Stati Membri.

Una posizione decisamente più moderata è stata assunta dall’Unione: la Commissione Europea ha invitato il Presidente turco ad un aperto dialogo con l’opposizione sulla necessità di introdurre la riforma, nonostante goda del placet della maggioranza della popolazione turca, e ha annunciato che esaminerà il rapporto dell’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo in Europa (OCSE) che ha già rilasciato informazioni su molteplici irregolarità che si sarebbero svolte durante le procedure referendarie in Turchia.

L’Unione Europea, la Francia e la Germania riconoscono l’importanza della Turchia all’interno dell’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico (NATO), che, al momento, in assenza di un esercito europeo, costituisce la difesa principale dei Paesi Membri dell’Unione; la posizione geografica della Turchia, garantisce un cuscinetto territoriale tra la Siria e i Paesi dell’UE. A tal proposito, è opportuno richiamare il sopra citato accordo UE – Turchia, su cui, peraltro, la Corte di Giustizia si è pronunciata incompetente, escludendo ogni possibilità di configurazione di tale accordo come una legittima pattuizione dell’Unione Europea; data tale impossibilità di considerare tale accordo come europeo – per il mancato rispetto di molteplici principi posti alla base dell’UE – è stato inserito all’interno della categoria del diritto internazionale, certamente meno intransigente.

La Turchia ha, quasi certamente, respinto ogni possibilità di entrare nell’Unione: mentre i consensi all’interno del paese appoggiano, in quantità crescente, l’ala conservatrice e protezionista del “Sultano” Erdogan, gli Stati Membri assumono posizioni sempre più contrastanti rispetto alla politica presidenziale, rendendo l’ammissione quasi una mera utopia.

Nello scenario internazionale, Russia e Stati Uniti hanno assunto posizioni favorevoli in merito alla riforma di Erdogan, condizionate, inevitabilmente, dai recenti mutamenti della governance globale.

Putin, a capo di una Russia lontana dalle conflittualità con la Turchia, si è schierato a favore del Presidente Erdogan, invitando la comunità internazionale a rispettare l’esito del voto referendario e sottolineando che la riforma costituzionale è una materia di competenza della sovranità interna, non inerente gli affari internazionali. In una società in cui si assiste ad una differente configurazione dell’interdipendenza tra gli Stati, non è possibile sostenere che una modifica alla Carta Costituzionale non condizioni, anche in minima parte, l’azione esterna di Ankara.

Negli Stati Uniti il Presidente D. J. Trump aveva preannunciato la sua volontà di attendere i rapporti OCSE sul referendum costituzionale, ma disattendendo questa previsione, si è congratulato con il Presidente turco; i due leader si sono incontrati per discutere la risposta Americana all’utilizzo delle armi chimiche da parte di Assad, evidenziando la necessità dell’attribuzione di responsabilità al Presidente siriano e rinnovando una partnership contro tutti i gruppi che usano il terrorismo per raggiungere i loro fini.

Le sfide che la comunità internazionale fronteggia, oggi, vedono l’accrescimento dei consensi in favore dei partiti populisti, e la Turchia di Erdogan, in questo variegato panorama, sta mettendo in atto una riforma politica e sociale in grado di stravolgere, profondamente, la libertà dei suoi cittadini; nell’onda di un protezionismo contagioso che mina, di fatto, alla pace e alla sicurezza internazionale e che ridisegna una struttura di partnership inter-statali differente, i diritti umani – che sembravano essere assorbiti all’interno della struttura giuridica e legislativa turca – si ritrovano, oggi, sotto la minaccia di un potere sempre più accentrato.

Mentre nuovi scenari si aprono per lo Stato Turco, con radicali mutamenti nella politica interna ed estera, la popolazione resta profondamente spaccata, divisa da profonde incomprensioni che accentuano le intolleranze e il malcontento popolare.

Adriana Brusca


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