Egitto, sulla morte di Shady Habash l’ombra del regime di Al-Sisi

La morte sospetta (l’ennesima) del fotografo e regista ventiquattrenne Shady Habash, avvenuta lo scorso venerdì nel carcere di massima sicurezza di Tora, a sud del Cairo, ha riacceso i riflettori sulle condizioni delle carceri egiziane e, in generale, sulle misure di repressione adottate dal governo contro chiunque tenti di esercitare una libertà o manifesti dissenso nei confronti del regime del presidente Abdel Fattah Al-Sisi.

Sebbene le cause del decesso siano ancora tutte da verificare, appare sempre più fondata l’ipotesi di un malessere connesso agli stati depressivi maturati in conseguenza della detenzione forzata. Forse in segno di protesta, il giovane regista avrebbe ingerito un liquido corrosivo tale da generare lesioni risultate poi letali, non avendo l’autorità giudiziaria autorizzato le dovute cure mediche.

«Invece di trasferirlo in un ospedale fuori dalla prigione, lo hanno risbattuto in cella», ha dichiarato il suo avvocato. In una lettera dello scorso ottobre, l’ultima, indirizzata alla famiglia, lo stesso Habash denunciava la situazione gravosa delle prigioni egiziane, già sporche e sovraffollate, ed oggi ulteriormente deteriorate dal diffondersi del coronavirus che ha indotto il governo del Cairo a sospendere i processi ed eliminare, specie nel caso di prigionieri politici, le visite dall’esterno.

«Sto morendo lentamente, giorno dopo giorno» scriveva il giovane dal carcere. «La prigione ti ammazza così. Prima cerchi di resistere, poi di non impazzire dopo essere stato buttato dentro una cella e dimenticato, senza sapere se e quando ne uscirai».

Shady Habash era stato arrestato nel marzo 2018 per aver diretto il videoclip della canzone satirica “Balaha” (letteralmente dattero), con cui il noto cantante egiziano Ramy Essam, simbolo della rivoluzione di piazza Tahrir, esule in Svezia dal 2014, contrastava apertamente i primi quattro anni del governo di Al-Sisi.

Alla vigilia delle elezioni presidenziali, tanto era bastato perché su Habash pendessero le accuse di appartenenza a gruppi terroristici, divulgazione di notizie false e insulti ai militari, comuni agli oppositori politici del regime di Al-Sisi. Al momento della morte, dopo oltre due anni di detenzione, il regista era ancora in attesa di processo. Il ventiquattrenne era stato infatti più volte convocato dinnanzi ai giudici egiziani che avevano però prolungato di mese in mese la sua detenzione, senza mai discutere le accuse né emettere una sentenza.

Sulla morte del regista, dunque, graverebbe ancora una volta l’ombra del regime di Al-Sisi che, con improbabili capi d’imputazione, continua a perpetrare arresti e detenzioni arbitrarie che, nella maggior parte dei casi, non giungono ad un legittimo processo. Quella di fissare udienze per poi puntualmente rinviarle sembra una prassi ormai consolidata, alla cui sorte appaiono destinati gli oltre 60.000 prigionieri politici che finiscono per logorarsi in attesa di una sentenza.

Al calvario del rinvio ingiustificato delle udienze è stato sottoposto anche Patrick Zaky, lo studente dell’università di Bologna, arrestato il 7 febbraio all’aeroporto del Cairo, e per la cui sorte crescono legittimamente le preoccupazioni. Dalla fine di febbraio, Zaky è detenuto nel carcere di Tora, lo stesso in cui è morto Shady Habash, in attesa dell’udienza di custodia cautelare che, complice l’emergenza coronavirus, ha già subito sette rinvii (uno ogni dieci giorni, l’ultimo il 22 aprile).

Carcere di Tora

Gli appelli delle organizzazioni a tutela dei diritti umani, per un’amnistia che possa subito concedere la libertà alle migliaia di detenuti egiziani in attesa di giudizio, sono rimasti sino ad ora inascoltati. La morte misteriosa di Shady Habash, allora, non fa che accendere l’ennesimo campanello d’allarme per la libertà di un Paese come l’Egitto, che nonostante le accertate sistematiche violazioni dei diritti umani, continua a rimanere impunito da parte della comunità internazionale.

Sebbene i rapporti annuali delle organizzazioni internazionali, tra cui quello di Amnesty International, intitolato “Stato permanente di eccezione”, documentino le incessanti repressioni dell’Egitto contro ogni forma di dissenso – giustificate dal pericolo terrorismo – gli Stati della comunità internazionale, in ragione di importanti interessi economici, hanno sempre cercato di mantenere distesi i rapporti col governo di Al-Sisi.

E questo lo sa bene l’Italia che, mentre tenta di assicurarsi commesse militari ed approvvigionamenti di gas (a gennaio, l’Italia ha firmato l’accordo, di cui anche l’Egitto è parte, per la trasformazione dell’East Mediterranean Gas Forum in una vera e propria organizzazione internazionale) e di salvaguardare i profitti delle imprese italiane in Egitto, sta di fatto rinunciando a richiedere verità e giustizia per la barbara uccisione di Giulio Regeni.