Caos Roma, il M5s e la sindrome da vecchia politica

Forse ci siamo, finalmente. La giunta Raggi dovrebbe aver trovato il suo nuovo assessore al Bilancio. Il cerchio si è stretto attorno a Salvatore Tutino, ex magistrato ed esperto di evasione fiscale, la cui nomina dovrebbe essere ufficializzata nelle prossime ore.

Il condizionale è d’obbligo, però, visto che di certezze, a Roma il Movimento Cinque Stelle ne ha, finora, date ben poche. Colpa dei fragili equilibri interni al movimento che hanno paralizzato l’operato di un’amministrazione, che avrebbe dovuto rappresentare una netta cesura con la fallimentare politica del passato, e che invece si è ritrovata a litigare su nomine e poltrone piuttosto che su contenuti e problemi, che di certo non mancano, della capitale.

A partire da quel Raffaele Marra, ex collaboratore di Gianni Alemanno e Renata Polverini, sulla cui spendita del nome, la Raggi ha provato e prova a non mollare, nonostante il progressivo ridimensionamento imposto dai vertici del movimento da “capogabinetto”, come lo aveva nominato il sindaco, a “vice”, finendo addirittura per occuparsi del personale del Campidoglio. Proprio sul caso Marra, è girato lo scontro tra la Raggi e i vertici del Movimento Cinque Stelle, e più precisamente con quel mini-direttorio, imposto da Grillo e Casaleggio, che avrebbe dovuto aiutare il sindaco nelle nomine, ma soprattutto nella gestione di una città sicuramente complessa.

E invece, il rapporto si è deteriorato fin da subito, portando dopo solo qualche settimana alle dimissioni della senatrice, Roberta Lombardi. Di lì in poi, è stato un continuum di tensioni e polemiche, su numerose questioni. Partecipate, ingenti stipendi di manager e assessori. Ma, al centro rimanevano sempre loro, le nomine, su cui il M5s ha dimostrato di non avere una linea univoca. In particolare, su chi avrebbe dovuto coprire il ruolo da capogabinetto, divenuto con il tempo una vera e propria maledizione. Prima l’incompatibilità con la funzione di vice-sindaco, di Davide Frongia, altro fedelissimo della Raggi, poi il passo indietro su Daniela Morgante, magistrato, ex componente della giunta Marino, e infine, le recenti dimissioni di Carla Romana Raineri. Quest’ultime giunte nel giorno nero dell’amministrazione Raggi, viste le concomitanti dimissioni dell’assessore al Bilancio, ex dirigente Consob, Marcello Minenna, e dei manager Atac, Armando Brandolese e Marco Rettighieri, e dell’Ama Alessandro Solidoro.

Non l’ultimo, però, visto quanto sarebbe successo solo qualche giorno più tardi, con la notizia delle indagini a carico dell’assessore ai rifiuti, Paola Muraro. Ma, all’interno di un caso di per sé già abbastanza spinoso, a far discutere è stato il volontario ed imbarazzato “silenzio” sulla questione da parte dei vertici del movimento, soprattutto di quel Luigi Di Maio, che non è riuscito a trovar altra scusa se non quella di “aver letto male le email”.  Un duro colpo a un punto essenziale nel pensiero grillino, la trasparenza, che di certo, il movimento non ha mostrato nel suo modus operandi. A maggior ragione che, dal momento delle dimissioni della Raineri e degli altri, il diktat di Grillo e Casaleggio, è stato quello di chiudersi a riccio, evitando qualsiasi esposizione mediatica esterna, anche di fronte alla richiesta di spiegazioni provenienti dalla base e dai vari meetup sparsi in Italia. A ben veder, il silenzio, però, appariva e appare più un tentativo di difesa personale, di difesa da sé stessi e dalle proprie divisioni. Il ritorno in campo di Beppe Grillo, dichiarato espressamente durante la convention di Palermo, dopo un periodo di accantonamento più o meno voluto negli ultimi mesi, è un chiaro segnale, volto a stemperare i toni interni, per far ripartire quanto prima la macchina amministrativa del Campidoglio. Seppur i segnali in tal senso appaiono ancora contrastanti e parlano di un movimento che fa quadrato attorno alla Raggi, più per ragioni di opportunità politica che di altro. Una mossa, per certi versi scontata. Anche perché perdere la sfida di Roma, come l’hanno definita molti degli esponenti pentastellati, dopo solo qualche mese, rappresenterebbe una macchia indelebile per il Movimento Cinque Stelle, difficile da pulire in ottica della paventata conquista di Palazzo Chigi. Il timore, insomma, è di arretrare concettualmente da una posizione, in cui il movimento era giunto per meriti e per legittimità popolare datagli dalle recenti elezioni amministrative, ossia di vera e pronta forza politica nazionale, tornando ad essere quelli “non adatti a governare”. Una sensazione, però, che, al di là della soluzione o meno del caos Roma, il M5s in questi tre mesi di Campidoglio ha dato in maniera assai evidente. Come l’odiata vecchia politica.

Mario Montalbano