Ricordando Indro Montanelli, un «generatore di conflitti»

A oltre un secolo dalla sua nascita, ricordiamo Indro Montanelli. Giornalista, scrittore e intellettuale, ha attraversato l’intero Novecento italiano, raccontandone gli eventi più significativi. 


Il 22 aprile 1909 nasce a Fucecchio, paese in provincia di Firenze, Indro Montanelli, figlio di Sestilio e di Maddalena Doddoli. In realtà il nome completo è Indro Alessandro Raffaello Schizogene. Per quanto riguarda il nome di battesimo, Indro non è altro che la versione maschile di Indra, divinità guerriera nella religione induista. Schizogene invece trae il suo significato dal greco e può essere reso come “generatore di conflitti” o “seminatore di zizzania”: sarà proprio questa natura a contraddistinguere la vita e la carriera di Montanelli.  

Avendolo attraversato quasi per intero, osservandone scrupolosamente le vicende più rilevanti, Montanelli può essere considerato un vero e proprio testimone del ventesimo secolo. La sua vita si è infatti intrecciata quasi sempre con gli avvenimenti più importanti della storia italiana del Novecento: dal regime fascista alla seconda guerra mondiale, dai decenni del potere democristiano all’avvento del berlusconismo, passando per Tangentopoli. Non è un caso se l’opera che lo ha reso maggiormente popolare sia proprio Storia d’Italia, una collana di libri di storia a carattere divulgativo, composta da ventidue volumi, ognuno dedicato a un’epoca della storia italiana, dal crollo dell’Impero Romano d’Occidente alla fine del ventesimo secolo. 

Nelle vesti di cronista, inviato speciale o corrispondente di guerra, Montanelli si è ritrovato a raccontare il corso della storia, seguendone da vicino gli sviluppi e analizzandone le conseguenze da una prospettiva critica e fortemente personale, la sua. Il resoconto sulla battaglia di Santander durante la guerra civile spagnola, le corrispondenze sulla guerra russo-finlandese, poi dalla Norvegia e dall’Albania durante la Seconda guerra mondiale, quindi il racconto della rivoluzione ungherese nel 1956: leggendo queste testimonianze si coglie perfettamente attraverso quale lente Montanelli fosse capace di osservare gli eventi. 

L’indipendenza di pensiero lo ha accompagnato e guidato per tutta la carriera, orientandone spesso le scelte professionali e contribuendo ad alimentare attorno alla sua figura quella nomea di “generatore di conflitti” che il nome Schizógene gli aveva di fatto profetizzato fin dalla nascita. 

indro montanelli

Passare in rassegna le tappe più significative della lunga carriera montanelliana potrebbe diventare un banale esercizio commemorativo, che finirebbe per tediare anche i tantissimi che reputano Montanelli uno dei più grandi giornalisti italiani. Quel tipo di ricordo, tra l’altro, non servirebbe nemmeno a illuminare quanti, soprattutto dopo la sua scomparsa, avvenuta il 22 luglio 2001, ne hanno rivalutato idee e posizioni per mero interesse di parte, calcolo elettorale o tornaconto personale. 

Cosa direbbe oggi Montanelli? è una delle domande maggiormente ricorrenti ogni qual volta si cerca di recuperare il punto di vista del maestro di Fucecchio, chiamato in modo postumo a disquisire su tematiche concernenti la politica e la società italiana. 

Sebbene la schiera dei suoi detrattori sia stata sempre molto folta, Montanelli è stato indubbiamente un punto di riferimento della professione giornalistica per almeno cinque decenni, prima come firma prestigiosa del Corriere della Sera, poi come direttore de Il Giornale nuovo e successivamente de La Voce. Queste ultime due esperienze, in particolare, sono state delle autentiche ‘battaglie’, condotte proprio in difesa di quella indipendenza di pensiero e professionale che per Montanelli ha sempre rappresentato la stella polare. 

Lasciare il Corriere della sera nel 1974 per fondare un nuovo quotidiano, Il Giornale nuovo appunto, significava nell’Italia ideologizzata degli anni Settanta, nella quale chi non si schierava a sinistra veniva automaticamente bollato come “fascista”, compiere una scelta coraggiosa e radicale. Il Giornale nuovo, diretto da Montanelli, seguiva una linea liberista in politica economica, era laico e anticomunista in politica interna, filoatlantico e filoisraeliano in politica estera: in una parola era liberal-conservatore. 

«Questo quotidiano nasce da una rivolta e da una sfida. La rivolta è contro uno stato di fatto che espone i giornalisti a ogni sorta di condizionamento padronale e corporativo. La sfida è alla ineluttabilità di questa situazione… I nostri mezzi sono limitati, ma noi ne siamo i padroni. Dobbiamo rassegnarci a un prodotto quantitativamente scarso, ma siamo sicuri di poterne compensare il lettore con la qualità. Chi sarà questo lettore noi non sappiamo perché non siamo un giornale di parte, e tanto meno di partito, e nemmeno di classi o di ceti… A questo lettore non abbiamo messaggi da lanciare. Una cosa sola vogliamo dirgli: questo giornale non ha padroni perché nemmeno noi lo siamo. Tu solo, lettore, puoi esserlo, se lo vuoi. Noi te l’offriamo». (Al lettore, Il Giornale nuovo, 25 giugno 1974) 

Ancora più coraggiosa e per molti aspetti traumatica la transizione che nel 1994 porta da Il Giornale a La Voce, causata dalla rottura tra Berlusconi e Montanelli. Silvio Berlusconi, che nel 1977 aveva rilevato alcune quote de Il Giornale per diventarne azionista di maggioranza a partire dal 1979, decide di iniziare la sua carriera politica con la cosiddetta “discesa in campo”, chiedendo di fatto che il quotidiano si trasformasse in organo del suo partito, Forza Italia; per Montanelli è qualcosa di irricevibile, che lo porta alle dimissioni da direttore de Il Giornale

«A questo punto non avevo più scelta: o rassegnarmi a diventare il megafono di Berlusconi o andarmene. Me ne vado, ma non senza avvertire i lettori che manterrò l’impegno preso con loro. Fra poche settimane essi riavranno il loro giornale, fatto dagli stessi uomini del “Giornale”, illustrato dalle stesse firme e nutrito delle stesse idee del “Giornale”… A presto, dunque, cari lettori. Anche a costo di ridurlo, per i primi numeri, a poche pagine, riavrete il nostro e vostro giornale. Si chiamerà “la Voce”, in ricordo di quella del mio vecchio maestro – di libertà e indipendenza – Prezzolini». (Giornale, addio!, il Giornale, 12 gennaio 1994)

In edicola dal 22 marzo 1994 al 12 aprile 1995, La Voce rappresentò per un anno una vera spina nel fianco per entrambi i fronti del bipolarismo, nato proprio dal nuovo sistema politico della Seconda Repubblica: dalle sue pagine infatti partivano aspre critiche nei confronti del primo governo Berlusconi e invettive altrettanto forti contro i partiti di sinistra. 

Le sue attività andarono indebolendosi sia a causa della sfrenata concorrenza dei colossi già esistenti nel panorama giornalistico italiano, che soprattutto per il distorcimento complessivo del mondo dell’informazione (strapotere delle Tv e raddoppio del prezzo della carta). Montanelli si congedò con un editoriale nel quale volle sottolineare ancora una volta le enormi difficoltà di esprimere certe idee e di portare avanti un atteggiamento, uno stile e dei valori in un Paese come l’Italia.

«Per tenere e difendere le mie posizioni, ho dovuto, in questi ultimi anni, fondare due giornali ‘contro’: contro la Sinistra, quando era la Sinistra a minacciarle e ora contro l’attuale parodia di Destra che le sta – cosa ancora più pericolosa – discreditando. Due battaglie, due sconfitte, di cui vado ugualmente fiero, ma che mi hanno lasciato addosso – nel morale e anche nel fisico – troppe cicatrici. Chiedo ai lettori di riconoscermi il diritto al congedo. Mi mancheranno i lettori, quei lettori, mi mancheranno terribilmente. Spero di mancare anch’io un poco a loro, ma spero ancora di più che “la Voce” dei miei ragazzi non faccia rimpiangere la mia». (Uno straniero in Italia, la Voce, 12 aprile 1995) 

Negli ultimi anni della sua vita Montanelli tornerà a scrivere sul Corriere della Sera, dove curerà “La Stanza”, una pagina di corrispondenza con i lettori, proseguendo quel rapporto diretto che d’altronde aveva gelosamente custodito lungo tutta la carriera. La sua eredità culturale la ritroviamo rileggendo le sue stesse parole, siano esse pagine di romanzi, volumi di storia, opere teatrali, articoli di giornale: un patrimonio sconfinato di testimonianze da maneggiare con cura.


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