La sindrome dell’impostore non è una “sofferenza di genere”

Esaminata originariamente da due donne e modellata sul genere femminile, la sindrome dell’impostore, non esattamente una condizione patologica, potrebbe essere non solo diffusissima ma anche la malattia del futuro di tutti.


Bassa autostima, inadeguatezza, insicurezza, “immeritevolezza”. Questo e tanto altro, lontano, lontanissimo dalle vetrine social, ma solo in apparenza: è la sindrome dell’impostore, una condizione che, secondo tutti gli studi, coinvolge soprattutto le donne. Le stesse che spadroneggiano sui dispositivi che teniamo in mano ogni giorno, vuoi per potere pubblicitario, vuoi per una tendenza perversa e paradossale, indotta o autoindotta. Perché è una sindrome senza tempo né (forse) soluzione? Perché l’iper connessione e la tensione competitiva alla perfezione sui social amplificheranno il fenomeno?

Cos’è la sindrome dell’impostore

La sindrome dell’impostore è un fenomeno descritto per la prima volta alla fine degli anni Settanta dalle psicologhe della Georgia State University Pauline Clance e Suzanne Imes. Le due studiose parlarono per prime della “percezione di non meritevolezza” del successo personale, condizione che porta capacità e abilità personali a essere costantemente sottostimate. 

Per chi vive la sindrome, ogni successo o risultato positivo di una propria impresa – in particolare nell’ambito della carriera lavorativa – viene affidato alla fortuna o a fattori esterni che ne hanno consentito la realizzazione. Qualunque sia il successo raggiunto, questo non sarà mai abbastanza per mettere in risalto l’evidente (e reale) merito, negato sistematicamente dall’autopercepito “impostore”. Si tratta di vere e proprie distorsioni cognitive – non è merito mio, inganno gli altri con successi non miei – che causano una costante minimizzazione nella percezione del senso di competenza e di valore personale. 

Impostori e ansia da smascheramento 

Non a caso le prime accademiche che se ne sono occupate sono due donne: il fenomeno, infatti, è stato originariamente studiato analizzando diverse donne che ricoprivano posizioni di successo e con un’ansia del tutto particolare. Come se non bastasse, tali posizioni femminili di successo sono state e sono ancora ostacolate da ben altri fattori, tutt’altro che autoinflitti, frutto di ingiustizie sociali.

Le persone che vivono la sindrome dell’impostore temono costantemente di essere “smascherate” e di mostrare la loro vera essenza (ovviamente fallimentare e immeritevole), perdendo – e questo è anche il grande paradosso della sindrome – quello status affermato di personaggio realizzato e vincente. Di fatto, questa condizione, è una costante angoscia verso il catastrofico disvelamento.

In questi casi non è difficile imbattersi, quindi, in atteggiamenti di perfezionismo più o meno estremo. La paura del fallimento (o dello smascheramento) evidenziano un timore intenso del giudizio, una vita in costante confronto con gli altri, eccessi di autocritica, colpevolizzazioni severe ed elevati livelli di ansia e frustrazione fino a sintomi depressivi.

La realtà “dietro” è sempre più complessa

La propria inadeguatezza percepita potrebbe essere condizionata anche dalla cosiddetta “ignoranza pluralistica”: ognuno dubita di sé privatamente – senza necessariamente sentirsi l’impostore – ma pensa di essere sempre l’unico a pensarla così. Un processo autoalimentato proprio in virtù del fatto che, stando al modello imperante di una “società della performance” tendente alla ricerca ossessiva di consensi e alla perfezione a tutti i costi, nessun altro dà voce ai propri dubbi, alle proprie difficoltà. 

È sempre così difficile capire su tutte le piattaforme con cui ci “connettiamo” reciprocamente se e come gli altri fatichino per raggiungere gli obiettivi o che ostacoli, più o meno quotidiani, siano concretamente vissuti nel corso della realizzazione professionale, personale, umana. 

Eppure la via d’uscita, sia per la sindrome dell’impostore che per migliorare l’ambiente in cui viviamo – banalmente, la vita social-e – è una sola secondo tutti gli esperti: esprimere semplicemente e con parole proprie le insicurezze, le mancanze, le lacune, quei luoghi in cui regna talvolta il timore di non essere all’altezza. 

Con tutta probabilità, sono proprio i vuoti quelli che possono riempire e arricchire più di ogni altro scatto perfetto, panorama dipinto o arredamento d’esposizione che sia. Difficilmente questi “vuoti”, le debolezze personali, sono posticci come la gran parte della comunicazione sui social. E soprattutto possiedono un elemento potenzialmente vincente: l’essere comuni, condivisibili, diffusi, più diffusi di quanto abbiamo mai pensato.

Schiacciamento sociale

Anche se il “fenomeno impostore” è stato originariamente studiato pensando a una determinata fascia di popolazione di sesso femminile, è impossibile negare quanto questa condizione pseudo patologica possa spiegare intere tendenze adolescenziali (ma non solo).

Senza dimenticare il pesantissimo apporto delle dinamiche familiari precoci e dell’introiezione di stereotipi sui ruoli di genere nella società – fattori direttamente implicati nell’ampia diffusione femminile della sindrome dell’impostore ad alti livelli professionali – va ricordato come, uscendo dal tranello di una “sindrome di genere”, tutti i giovani e meno giovani (Generazione Z e Millennials) siano esposti al fenomeno dell’impostore.

In primo luogo, per la diffusione di un modello morboso di valorizzazione della propria vita esposta al confronto con quella degli altri, così come richiesto dal funzionamento delle piattaforme social; in secondo luogo, l’esposizione giovanile – mostrare di più e sempre di più – è sospinta dal modello piramidale dei social, vetta dei quali è dominata da chi ha potuto e saputo sottoporsi maggiormente al giudizio di un pubblico molto vasto e molto esigente, una platea spietata che (vale la pena sottolinearlo) ha lasciato morti e feriti. E non quelli delle “pericolosissime” challenge, ma quelli schiacciati sotto la piramide.