Presunzione di innocenza, l’Italia recepisce la Direttiva UE

L’ordinamento giuridico italiano ha in parte recepito la Direttiva UE 343/2016. Qual è impatto sulla presunzione di non colpevolezza e sull’indagato/imputato?


Il 14 dicembre scorso è entrato in vigore il Decreto Legislativo 188/2021 che, dopo cinque anni, ha parzialmente recepito la Direttiva UE 343/2016 sul rafforzamento della presunzione di innocenza e sul diritto dell’indagato/imputato di prendere parte al processo.

Già con la legge 163/2017 il Parlamento aveva delegato il Governo per l’attuazione di tale atto dell’Unione; delega poi non esercitata in concreto, poiché l’esecutivo italiano riteneva che il nostro ordinamento non necessitasse di ulteriori adattamenti per conformarsi agli obiettivi imposti dal Diritto dell’UE. La relazione della Commissione europea pubblicata a marzo 2021, in merito allo stato di attuazione della Direttiva, ha messo in luce l’esigenza di un recepimento anche all’interno dell’ordinamento italiano, a cui si è tentato di rispondere proprio con la novella legislativa del dicembre 2021. 


Allo scopo di rafforzare la presunzione di innocenza, la Direttiva, in primo luogo, riconosce e sancisce il principio in questione, invero già contenuto all’art. 48, paragrafo 1, della Carta dei Diritti Fondamentali dell’UE e all’art. 6, paragrafi 2 e 3, della Convenzione Europea per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo (CEDU), nonché nelle tradizioni costituzionali degli Stati Membri (in Italia, ad esempio, lo si trova all’art. 27, comma 2, della Costituzione). 

Secondo quanto disposto dalla Direttiva (artt. 3-5), grava sugli Stati Membri l’onere di adottare misure per garantire che le Autorità pubbliche non si riferiscano all’indagato/imputato come colpevole, nell’ambito delle loro dichiarazioni pubbliche, in Tribunale ed al di fuori delle sedi giurisdizionali; tale onere si estende, altresì, alle modalità con cui l’indagato/imputato viene esposto e presentato al pubblico, le quali non devono prevedere l’applicazione di strumenti di coercizione fisica, se non nei limiti dell’esigenza di scongiurare il pericolo di fuga o per ragioni di pubblica sicurezza.

Secondo quanto disposto dalla Direttiva, gli Stati Membri dovranno assicurare che l’onere della prova circa la responsabilità penale gravi sulla Pubblica Accusa. Tale obbligo, ai sensi dell’art. 6, non pregiudica comunque la parallela imposizione, presente in alcuni ordinamenti, come in quello italiano (almeno sul piano teorico-codicistico), di ricercare anche le eventuali prove a discarico dell’indagato/imputato. L’applicazione di tale principio impone, altresì, che ai fini dell’affermazione della responsabilità penale, la colpevolezza debba essere accertata – secondo gli standard fissati dai Giudici nazionali nella nota pronuncia Franzese – al di là di ogni ragionevole dubbio. 

Dal combinato disposto degli artt. 7 e 10 della citata Direttiva, si evince il riconoscimento del diritto al silenzio e del diritto di non essere obbligati ad affermare la propria responsabilità penale (a non “auto-incriminarsi”), ben espresso nel brocardo latino nemo tenetur se detegere. Se tali diritti vengono violati, spetta agli Stati Membri l’obbligo di garantire che, in sede di valutazione delle dichiarazioni rese, vengano rispettati il diritto di difesa e, più in generale, i principi dell’equo processo. 

Allo scopo di favorire la celerità del procedimento, la Direttiva ammette la possibilità che, in ipotesi di reati minori, sanzionati in maniera più lieve, lo svolgimento dell’intero processo – o di alcune sue fasi – possa avvenire in modo cartolare, per iscritto, senza la necessità di provvedere ad un interrogatorio, purché ciò risulti conforme ai principi dell’equo processo.

Sotto altro versante, con il fine di garantire degli standard uniformi in tutti gli Stati Membri, la Direttiva, all’art. 8, riconosce il diritto dell’indagato/imputato a presenziare al proprio procedimento. Tale diritto si considera garantito quando un soggetto, pur essendo a conoscenza dell’esistenza del processo, decida volontariamente di non prenderne parte. Ciò avviene, ad esempio, quando la persona sia stata debitamente informata del processo e delle conseguenze connesse ad una eventuale mancata comparizione, ovvero nelle ipotesi in cui il soggetto scelga di partecipare allo svolgimento del processo per il tramite di un difensore o di un suo rappresentante. 

Se tale diritto non viene rispettato, ai sensi dell’art. 9, gli Stati Membri devono garantire che l’indagato/imputato, venuto a conoscenza dell’esistenza del processo ed informato dell’eventuale provvedimento a lui irrogato, possa riacquisire i suoi diritti attraverso l’instaurazione di un nuovo processo o attraverso adeguati mezzi di impugnazione. Giova ricordare, sul punto, che in Italia la materia è stata riformata dalla Legge 67/2014 che, sulla scorta delle pronunce della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo e nel solco degli ultimi orientamenti della Suprema Corte di Cassazione, ha formalmente abolito l’istituto della contumacia, introducendo quello dell’assenza dell’imputato.

Interessante è la clausola di non regressione inserita all’art. 13 della Direttiva, il quale precisa come nessuna disposizione possa essere interpretata in modo da limitare o derogare alle garanzie procedurali già esistenti, che assicurano un livello di protezione più elevato. La clausola fa riferimento ai diritti riconosciuti agli artt. 47 e 48 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’UE, nonché, oltre che alle disposizione proprie agli ordinamenti di ciascuno Stato Membro, anche ai diritti di cui all’art. 6 della CEDU, così come interpretati dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo.

Tale clausola, peraltro, è coerente con quanto già previsto nell’ordinamento dell’UE, all’art. 52 della Carta dei Diritti Fondamentali, circa la portata e l’interpretazione dei diritti e dei principi sanciti dalla Carta stessa, in rapporto al livello di diritti riconosciuto dagli Stati e dalla CEDU.

Nel quadro della Direttiva in questione, il punto più problematico sul piano interno è stato quello relativo al principio di non colpevolezza, la cui attuazione, alla luce dell’atto dell’Unione, mira ad evitare che, nell’attività di diffusione delle informazioni, siano impiegate modalità che favoriscano l’instaurazione di procedimenti mediatici, paralleli a quello che si svolge in sede penale, nell’ambito dei quali l’indagato/imputato venga presentato come un criminale e  strumentalizzato dinnanzi agli occhi dell’opinione pubblica. Un processo che si trasforma esso stesso in sanzione, la cui funzione potrebbe forse essere considerata deterrente, ma non certo rieducativa.

Come sostenuto da alcuni, tale normativa potrebbe condurre solo parzialmente al risultato auspicato, giacché la sua portata non si estende agli organi di informazione. Ed infatti, il recepimento della Direttiva, avvenuta con il già citato Decreto Legislativo 188/2021, ha condotto all’introduzione di un testo complesso, che si compone di sei articoli, tutti rivolti alle Autorità pubbliche, che costituiscono il risultato di un tentativo del legislatore nazionale di bilanciare il diritto di cronaca giudiziaria con i diritti che vengono in rilievo in relazione al soggetto coinvolto nel procedimento.


Con tale intervento normativo il legislatore nazionale è intervenuto su un duplice piano, occupandosi sia delle modalità di comunicazione delle Autorità pubbliche sui mass media, sia del lessico adoperato e del registro linguistico da adottare nell’ambito delle dichiarazioni che vengono rilasciate.

Sul primo versante, l’art. 2, comma primo, del citato Decreto, sancisce il divieto, per le Autorità pubbliche, di indicare coram populo l’indagato/imputato come colpevole, prima dell’emissione della sentenza definitiva di condanna. Ove tale divieto venga violato, oltre al risarcimento del danno, l’indagato/imputato ha il diritto di richiedere la rettifica della dichiarazione dell’Autorità pubblica, che, se ritiene fondata la pretesa dell’interessato, deve provvedere immediatamente e, comunque, non oltre le quarantotto ore successive alla ricezione della richiesta.

Inoltre, l’art. 3 del Decreto 188 dispone che i rapporti delle Procure con gli organi di informazione debbano articolarsi esclusivamente attraverso comunicati ufficiali, che, dunque, si sostanziano in atti scritti o in conferenze stampa. Tale ultima ipotesi, tuttavia, è subordinata alla sussistenza di fatti che rivestano una particolare rilevanza pubblica, la cui diffusione appare strettamente necessaria per la prosecuzione delle indagini, ovvero connessa ad altre specifiche ragioni di interesse pubblico.

Quanto alle modifiche connesse alla volontà di introdurre un nuovo registro linguistico, da impiegare nelle comunicazioni delle Autorità pubbliche, è stato introdotto nel Codice di rito l’art. 115 bis, che mira a favorire l’utilizzo di un lessico più garantista nella redazione dei provvedimenti – tendenzialmente atti endoprocessuali – diversi da quelli che si pronunciano sulla responsabilità penale dell’imputato.

Tali disposizioni, ai sensi del comma 1 del medesimo articolo, non si applicano agli atti del Pubblico Ministero. La violazione dei divieti in questione fa sorgere il diritto dell’indagato/imputato di richiedere la correzione del provvedimento, nel termine dei dieci giorni successivi alla conoscenza dello stesso, a pena di decadenza.

Sempre in attuazione della Direttiva, il Decreto ha modificato l’art. 314 del Codice di Procedura Penale, in materia di riparazione per ingiusta detenzione, prevedendo che tale diritto non possa essere pregiudicato dall’esercizio, da parte dell’imputato/indagato, della facoltà di non rispondere, richiamando quanto stabilito in sede europea con riferimento al diritto al silenzio. Ancora, in materia di desecretazione degli atti, il riformato art. 329, comma secondo, c.p.p., prevede oggi che tale operazione possa essere effettuata solo quando strettamente necessaria ai fini della prosecuzione delle indagini.

In ultimo, il Decreto ha riformato anche l’art. 474 del Codice di rito, introducendo un nuovo comma, 1 bis, e prevedendo che eventuali strumenti di coercizione fisica possano essere applicati dal Giudice con apposita ordinanza, sentite le parti, e solo ove vi siano particolari ragioni di sicurezza o il pericolo che l’indagato/imputato fugga.

Nel complesso, la normativa richiamata, seppur non abbia introdotto un sistema del tutto organico e lineare – per ragioni che non è possibile approfondire in questa sede – ha il merito di rappresentare una presa di posizione culturale chiara contro le forma di giustizialismo sempre più ricorrenti nella cronaca giudiziaria e di imporre, come è stato definito da alcuni, un “nuovo costume giudiziario”, più attento ai diritti fondamentali del soggetto coinvolto nel procedimento e alle garanzie connesse ad una adeguata attuazione della presunzione di innocenza.