Il bug comunicativo tra violenza e repressione delle parole

L’importanza delle parole, che normalmente la società riconosce, vacilla quando prevale la repressione delle parole, i tabù, e sulla spinta contraddittoria alle soluzioni violente.


La società moderna ripone nelle parole la massima autorità comunicativa rendendole, di fatto, l’espediente per i conflitti o per le risoluzioni degli stessi. 

E allora è semplice capire perché le parole Spazio vitale abbiano assunto un’importanza strategica durante il Secondo conflitto mondiale, divenendo quasi la miccia dell’esplosione. Un altro esempio molto più vicino a noi potrebbe essere l’appellativo della più famosa organizzazione criminale “Cosa Nostra”, due parole con un significato talmente semplice da scaturire uno sconcerto tale nell’ascoltatore che è inversamente proporzionale. 

Di parole sono composte anche le lotte sociali contemporanee, il femminismo, i movimenti LGBTQ+, i movimenti per le patologie rare o stigmatizzate. Questi movimenti sono composti di parole, favorevoli o contrarie, ma soprattutto di parole “non dette”. 

È diventato di comune costume creare dei tabù intorno a determinati argomenti: non si può parlare di omofobia a meno che non ci si dichiari omosessuale, non si può parlare di femminismo a meno che non si è una donna, non si possono trattare determinati argomenti relativi alle malattie a meno che non si è direttamente coinvolti. Per cui un lungo elenco di parole diventano effettivamente proibite, vengono messe al bando. 

L’ultimo evento di pochi giorni fa di cui tutti parlano e di cui si è dibattuto in mille sfaccettature diverse, riguarda il plateale ceffone tirato in faccia a Chris Rock dal celebre attore neo premio Oscar, Will Smith, in seguito a una infelice battuta sullo stato di salute della moglie Jada Pinkett Smith. 

La vicenda è stata immediatamente condannata da tutti i movimenti sociali; i movimenti femministi parlano di un comportamento «machista» di chi sente di proteggere la propria donna; le associazioni dei malati ritengono che non ci si possa schierare e che comunque non sarebbe dovuto intervenire lui a protezione della diretta interessata, infine c’è chi critica la violenza in assoluto, ritenendo che alle provocazioni non si debba mai rispondere con la violenza

Non ci si vuole soffermare adesso sulla vicenda, che per quanto possa avere risalto mediatico risulta comunque una diatriba privata di personaggi pubblici gettata in pasto alla massa. Ci si vuole, piuttosto, soffermare sulla narrazione, parlare di violenza durante un conflitto a fuoco ai confini dell’Europa suscita punti di vista molto interessanti. 

Durante un conflitto, sia esso una guerra o uno scontro privato, si condanna sempre la violenza. Si condanna la violenza con parole come “Avrebbe dovuto essere la Pinkett a mollargli un ceffone” o ancora “Sarebbe il caso di aumentare la spesa militare”. Si condanna la violenza anche criticando le lacrime e le scuse postume di Will Smith o lasciando spazio di azione ai Capi di stato di Paesi come la Turchia e Israele per risolvere un conflitto a fuoco (non esattamente inclini a far tacere le armi e a dialogare). 

Ad un occhio distratto i due eventi potrebbero risultare sconnessi tra loro, oltre che geograficamente, per intensità e importanza, e in parte è vero. Ma come è stato detto in apertura, le parole sono importanti. Stefano Bartezzaghi reputa le “parole” al pari dei “fatti”, ed effettivamente così è. Le parole, di fatto, producono un cambiamento nell’ambiente, esattamente come i fatti, e come questi generano delle reazioni nel contesto e negli elementi intorno a sé. Quindi si potrebbe andare oltre il ragionamento di Bartezzaghi e sostenere che le parole sono fatti, e lo diventano nel momento in cui causano una reazione.

Sull’evento accaduto agli Oscar, un interessante intervento è quello di Ricky Gervais che, in un modo molto liberale, sostiene che le parole non hanno significato, siamo noi che gli attribuiamo un significato, positivo o negativo che sia. 

Non si vuole in questa sede condannare o meno una determinata persona per il proprio comportamento. Si vorrebbe invece dare un punto di vista obiettivo rispetto all’utilizzo delle parole, alle narrazioni, perché si dovrebbe imparare ad accettare che le cose accadono, che si può anche sbagliare, ma che non siamo nelle condizioni di condannare o meno una parte o di assolverne un’altra, sia nei conflitti che nelle relazioni. 

Nessuno può mettere in discussione il comportamento di Will Smith nell’atto di mollare un ceffone, ma nessuno può dire chi ha torto o ragione. Sicuramente in un mondo libero e democratico dovrebbe essere consentito di poter esprimere il proprio pensiero, poter anche fare dell’ironia su determinati argomenti, si può far ridere o meno, ma sicuramente non si può reprimere l’utilizzo delle parole.

Alla stessa maniera, nessuno mette in dubbio l’attacco bellico portato avanti dalla Russia nei confronti dell’Ucraina, ma non si può assolvere in maniera certa la figura di Zelensky e della NATO tutta. 

Le parole sono fatti, e i fatti, spesso, sono fatti di parole, e queste ultime sono un’invenzione dell’uomo. È l’uomo stesso che dà carico alle parole che sente, trasformandole in fatti. 

Un messaggio che potrebbe essere indirizzato a tutti i movimenti e i commentatori potrebbe essere letto in una celebre ed iconica canzone di Fabrizio De Andrè, “Anche se voi vi credete assolti, siete lo stesso coinvolti”.


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