Corte di Giustizia Europea, respinti i ricorsi di Polonia e Ungheria

La scelta di pronunciarsi in diretta streaming sui ricorsi di Polonia e Ungheria mostra la rilevanza che la Corte attribuisce ai valori dell’UE e la consapevolezza del suo ruolo para-giurisdizionale.


Lo scorso 16 febbraio, la Corte di Giustizia Europea si è riunita in seduta plenaria per pronunciare le sentenze concernenti le cause Ungheria e Polonia c. Parlamento e Consiglio (C-156/21 e C-157/21), che si sono concluse con un rigetto integrale dei ricorsi – di annullamento – introdotti da detti Stati Membri. 

Le pronunce in questione rivestono un’importanza cruciale, oltre che sotto il profilo strettamente giuridico, anche da un punto di vista più ampio, connesso a ragioni politiche e alla prassi adottata dalla Corte che, per la prima volta nella sua storia, ha deciso di rendere le sentenze in diretta streaming. 

Senza la pretesa di scendere nel dettaglio di una disamina iuris, questo articolo si propone di avanzare alcune riflessioni, connesse tanto ai temi trattati nelle sentenze, quanto alle modalità impiegate per la loro pronuncia. 

Sotto il primo profilo, va detto che l’oggetto dei ricorsi è il Regolamento approvato nel dicembre 2020 da Parlamento europeo e Consiglio, che istituisce un regime generale di condizionalità per la protezione del bilancio dell’Unione in caso di violazioni dei principi dello Stato di diritto negli Stati Membri. A tal fine, il Consiglio può adottare misure di protezione, tra cui la sospensione dei pagamenti che gravano sul bilancio dell’Unione o la sospensione di uno o più programmi da esso finanziati.

In tale contesto, Ungheria e Polonia hanno proposto un ricorso di annullamento contro tale atto, sostenendo il superamento delle attribuzioni dell’Unione, l’assenza di una base giuridica adeguata per l’approvazione dell’atto, l’introduzione di una procedura elusiva rispetto a quella prevista dall’art. 7 TUE – che può essere attivata nelle ipotesi di violazioni gravi e persistenti dei valori fondanti dell’UE – e la violazione del principio di certezza del diritto. In questa sede, ci si soffermerà prevalentemente sugli ultimi due motivi di ricorso. 

Per introdurre la riflessione, giova innanzitutto ricordare che il Regolamento impugnato è stato parzialmente criticato, in senso diametralmente opposto alle doglianze espresse nei ricorsi presentati da Ungheria e Polonia. È stato sostenuto, infatti, che esso tende a rimarcare l’impegno per la costruzione di un’Europa unita più sotto il profilo economico, che sotto quello politico. 

E infatti, le misure sospensive che l’atto consente di adottare non conseguono a una qualsiasi violazione dei principi dello Stato di diritto – proponendosi, in tal senso, quali misure di tutela dei valori dell’Unione – ma sono atte esclusivamente a tutelare il bilancio dell’UE, limitandone i finanziamenti solo nel caso in cui l’operato degli Stati Membri, sostenuto economicamente dall’UE e nei contorni delle sue attribuzioni, possa violare i principi dello Stato di diritto, secondo i criteri del nesso di causalità e in misura proporzionale all’effettivo rischio o pregiudizio. 

In altri termini, in base a questo strumento, non rileva se uno Stato Membro non rispetti lo Stato di diritto; tale mancanza assume rilevanza solo quando sia destinata ad incidere sugli interessi finanziari dell’Unione

Questa riflessione basterebbe ad escludere radicalmente la tesi sostenuta nei ricorsi di Polonia e Ungheria, in base alla quale il Regolamento introdurrebbe uno strumento elusivo del procedimento sanzionatorio introdotto dall’art. 7 TUE. Come si è accennato, infatti, quest’ultima disposizione consente al Consiglio di adottare misure sanzionatorie – sino alla sospensione del diritto di voto in Consiglio – nel caso di violazioni gravi e persistenti dei valori dell’UE, tra i quali, all’art. 2 del Trattato, è citato anche il rispetto dello Stato di diritto.

Si tratta di uno strumento profondamente diverso e più generale, che rappresenta invece l’unico rimedio attualmente esistente per opporsi al discostamento di uno Stato Membro dai valori europei. Com’è noto, infatti, se è vero che l’Unione prevede specifici parametri politici, contenuti nei criteri di Copenaghen, che impongono agli Stati candidati il rispetto dei principi comunitari ai fini dell’ammissione, è altresì vero che, una volta approvato l’ingresso nell’UE di un nuovo Stato, l’ordinamento dell’Unione non appresta specifici mezzi per monitorare e sanzionare l’eventuale violazione da parte dello Stato aderente di quegli stessi valori a cui si era conformato, se non mediante la procedura dell’art. 7 TUE. 

Il paradosso si mostra più evidente se si pensa che il Consiglio europeo, nel 1993, elaborò i criteri di Copenaghen – che impongono agli Stati candidati il rispetto della democrazia, dello Stato di diritto e dei diritti umani – proprio in vista del quarto grande allargamento dell’Unione, che portava con sé l’eredità della caduta del muro di Berlino e l’esigenza di inglobare nel sistema comunitario Paesi dal trascorso molto diverso dagli Stati fondatori, tra cui anche Polonia e Ungheria. Quegli stessi Stati che, oggi, sembrano battersi per impedire l’introduzione di strumenti ulteriori di tutela di quei medesimi valori, seppur in ambiti settorializzati. 

D’altra parte, oltre a un’applicazione non sempre coerente di detti criteri, una volta che i nuovi Stati Membri hanno fatto ingresso, la prassi ha messo in luce come uno scarso utilizzo dell’art. 7 abbia rivelato la natura profondamente politica di tale strumento. Non vi è dubbio, infatti, che la circostanza per cui la delibera sull’assunzione di una misura sanzionatoria ex art. 7 TUE sia di competenza del Consiglio – e, dunque, di un’Istituzione composta da rappresentanze ministeriali, a base statuale – renda tale scelta una decisione prevalentemente fondata su alleanze e interessi politici degli Stati. 

Il Regolamento impugnato, dunque, ci pone dinnanzi ad un nuovo strumento, che prevede sì l’applicazione di sanzioni in ipotesi di violazione dello Stato di diritto, ma solo nei casi in cui esse incidano negativamente nel bilancio dell’Unione, ponendosi in contrasto con il principio secondo cui gli Stati Membri fondano la loro fiducia reciproca anche nell’utilizzo responsabile delle risorse comuni iscritte nel bilancio.

Considerato che l’applicazione delle misure derivanti da tale Regolamento è subordinata all’approvazione della decisione, nuovamente, come nel caso dell’art. 7 TUE, in sede di Consiglio, sarà interessante verificare nella futura prassi se gli Stati Membri adotteranno più frequentemente delle sanzioni seguendo tale sistema di condizionalità, in tal senso rivelandosi politicamente più coraggiose ove ad essere lesi non siano i “valori dell’Unione”, ma i suoi interessi finanziari. Ed è proprio questa preoccupazione che, forse, ha spinto Polonia e Ungheria a proporre tale motivo di ricorso, poi respinto, come si è detto, nella pronuncia della Corte di Giustizia. 

A ben vedere, sembra che ci trovi dinnanzi ad un’involuzione del processo di integrazione, dove alcuni Stati Membri si impegnano a portare avanti teorie che ostacolano la promozione di strumenti volti ad incentivare il raggiungimento degli obiettivi di democrazia propri dell’Unione e che, forse, guardando alle doglianze presentate nei ricorsi, rifiutano l’idea stessa di identità europea, intesa quale comune appartenenza ad un sistema valoriale condiviso. 


Ciò si mostra ancor più evidente guardando all’ultimo motivo dei ricorsi, afferente alla violazione del principio di certezza del diritto, che, secondo i ricorrenti, il Regolamento impugnato violerebbe poiché non definirebbe la nozione di Stato di diritto né i suoi principi.

Sostenere tale tesi, però, significherebbe affermare che proprio lo Stato di diritto, che è uno dei valori fondanti su cui l’Unione si struttura, ha un contenuto vano, non definito o, addirittura, discrezionale; rivelerebbe l’indeterminatezza di uno dei parametri sui quali viene valutata l’ammissione, nonché la fragilità dei criteri su cui si fonda la procedura dell’art. 7 TUE, di cui si è discusso. Varrebbe a dire, in altri termini, che se l’identità dell’Unione è lo specchio dei suoi valori fondanti, l’immagine che è riflessa ha, poi, i contorni opachi.

Sebbene tale tesi, forse, possa essere sostenibile sotto alcuni profili, non si può non appoggiare la posizione espressa dalla Corte di Giustizia che, con eleganza, ha rammentato come la nozione di Stato di diritto si fondi su principi ampiamente elaborati e discussi dalla giurisprudenza della stessa Corte, che trovano fonte nei valori comuni riconosciuti e applicati anche dagli Stati Membri nei loro ordinamenti interni, quali valori condivisi nell’ambito delle loro tradizioni costituzionali. 

Su questo sfondo si collocano le pronunce della Corte di Giustizia nei casi in esame, dove, come emerge chiaramente in relazione al contesto esposto, sebbene la Corte stia esercitando una funzione giurisdizionale, essa si trova anche dinnanzi ad un compito di orientamento politico. 

In un momento storico che impone l’assunzione di misure decise per rilanciare il processo di integrazione, la Corte continua ad affermare un diritto vivente che si pone a favore del processo di costruzione di un’Europa unita e dello sviluppo di una dimensione identitaria dell’Unione. 

La scelta di rendere queste pronunce in diretta streaming, dunque, più che all’esigenza di garantire maggiore trasparenza e accessibilità alle udienze della Corte, risponde forse alla volontà di comunicare efficacemente con i cittadini e gli Stati Membri, in maniera chiara, aperta e innovativa, per affermare che una base identitaria dell’Unione esiste, che questa Europa va rafforzata, e che, in una comunità di diritto, non c’è spazio per chi si oppone alla tutela dei valori del progetto europeo. 


... ...