Quell’amore “malato” di Pirandello per la giovane Marta Abba

C’è un amore che esiste solo nell’inchiostro e nella mente di un affermato Pirandello, “schiavo” dell’ispirazione proveniente da una sola, giovane, donna: l’attrice Marta Abba, un tormento che non avrà mai fine.


La vita amorosa del celebre drammaturgo siciliano fu difficile e controversa, e l’unica pace dell’anima era custodita nel teatro e nella scrittura. Oltre alla drammatica relazione con la moglie Antonietta, un’altra donna è stata la protagonista di un amore platonico, unilaterale, che prendeva vita solo nelle parole dello scrittore: Marta Abba

L’incontro tra Pirandello e Abba

Nel Febbraio del 1925, all’età di 57 anni, Luigi Pirandello si trovava all’apice della sua carriera drammaturgica e a capo del Teatro D’Arte a Roma; cercava di metter su una buona compagnia, così da poter portare in scena la prima opera di debutto firmata da Massimo Bontempelli, Nostra Dea

Tra gli attori maggiormente acclamati dalla critica del periodo, risalta il nome di Marta Abba, ventiquattrenne di origini milanesi, conosciuta dopo il successo nel dramma Il gabbiano di Anton Čechov. A suggerire il suo nome per lo scritto è l’autore e critico rinomato Marco Praga, il cui giudizio è per Pirandello garanzia, tanto da scritturare la giovane attrice senza averla mai vista. 

«Io arrivai a Roma accompagnata da mia madre – racconta Marta Abba in diverse interviste televisive – Era il primo viaggio verso una Compagnia, con la quale avrei dovuto fare una tournée. Sul palcoscenico vidi alcune persone nel semibuio, e una con i capelli d’argento, il pizzetto bianco, piuttosto curva. Io entrai in palcoscenico e qualcuno disse: “è Marta Abba”. Pirandello allora scattò dalla sua poltrona e mi venne incontro con quella sua splendida vitalità: non pareva certo vecchio! Mi strinse ripetutamente la mano e mi disse: “Benvenuta signorina, siamo contenti che sia arrivata”».

Tra i due nacque immediatamente una fortissima ammirazione reciproca, quasi venerazione: sul piano professionale erano entrambi rapiti dall’altro, da un lato il Maestro, dall’altro una talentuosa attrice dall’incredibile versatilità. 

È infatti durante la sua prima prova per Nostra Dea che Marta Abba sfoggia la sua eccellente capacità di impersonare l’intero repertorio pirandelliano, vestendo i panni di un personaggio (Dea) che muta, a seconda degli abiti che indossa, carattere ed emozioni. Capacità che fece breccia nell’anima del drammaturgo siciliano, che la identificò subito come “la sua musa”, non solo del suo teatro.

Scrisse numerose opere a lei dedicate, L’amica delle mogli, I giganti della montagna, Diana e la Tuda, Quando si è qualcuno, e la rese presto regina della compagnia da lui fondata.

Una corposa corrispondenza

Il 7 febbraio 1925, pochi giorni dopo il primo incontro fatale, Luigi Pirandello inviò alla giovane attrice la prima di una lunga serie di lettere. Erano poche righe, brevi, quasi formali, dove cominciava a tessere gli elogi di quello che successivamente diventerà una profondo e tormentato amore, simile all’idolatria. Durante i successivi undici anni, Pirandello scriverà 560 lettere, di cui in risposta ne riceverà meno della metà: 238, a intervalli irregolari. 

«Se ancora vivo e scrivo lo debbo unicamente a Te. E perciò tutto T’appartiene. Tutto, anche se poi qualche lavoro non lo reciti Tu. Che importa? È tuo lo stesso! Lo scrivo sempre per Te, perché piaccia a Te, anche se non lo devi recitare».

Mentre le parole di Pirandello sono sempre più intense e profonde, cariche di un sentimento logorante che lo rende morbosamente dipendente dalla donna («Marta mia… Se Tu potessi sentire quanto soffro, son sicuro che avresti un po’ di pietà per me») quelle della Abba sono certamente di tutt’altro stampo: non ha mai smesso di dargli del “lei”, mettendo davanti l’infinita stima che provava nei suoi confronti, e raccontava di viaggi, attori, vestiti di scena. Ma non parlava mai di amore, anzi, cercava di dissuadere  («Spazi, Maestro, spazi, largo, largo… non si stanchi troppo scrivendomi… non si scomodi a farmi dei telegrammi… si riposi, non faccia smanie»).

L’ultima lettera arriverà all’attrice quattro giorni dopo la morte dell’autore siciliano, nel 1939, mentre è all’estero ormai dedita a una carriera volta verso teatri più importanti come quello di Broadway. «Se penso alla distanza, mi sento subito piombare nell’atroce mia solitudine, come in un abisso di disperazione».

La presenza silenziosa della moglie

Nel periodo in cui Pirandello conobbe Marta Abba, il drammaturgo era reduce da una vita privata dolorosa e tormentata. Nel 1894 sposa per mezzo di un matrimonio “purtatu” (combinato) la figlia del socio in affari di suo padre, la siciliana Antonietta Portolano. Anche lei, agrigentina e benestante, sognava una vita semplice e tranquilla, purtroppo incompatibile con i tormenti interiori dello scrittore. 

Nonostante l’unione apparentemente forzata, Antonietta amava molto suo marito, e lui amava lei. Una volta trasferiti a Roma ebbero tre figli, e sembrava andare tutto per il meglio quando, in breve tempo, si ritrovarono, nel 1903, improvvisamente sul lastrico. L’evento fu deleterio per la salute mentale della donna, già soggetta ad alcune crisi isteriche causate da una forte gelosia nei confronti del compagno. Questa si trasformò poi in una gelosia delirante e paranoica, arrivando a dubitare perfino della figlia Lietta, insinuando un incesto tra lei e il padre, una gelosia che portò la figlia prima a un tentato suicidio e poi ad andarsene di casa. 

Nel 1919 Antonietta verrà trasferita in un manicomio. Pirandello le resterà sempre accanto, approfondendo la psicanalisi di Freud e sperando di capire i meccanismi della mente e della psiche. E durante il resto della sua vita, la figura di sua moglie sarà una presenza costante, invisibile, ma presente, anche davanti al sentimento verso Marta Abba.

L’atroce notte di Como e la vergogna

Con questo fortissimo senso di vergogna e pudore, in aggiunta a un’educazione gentile e rispettosa, Pirandello non toccherà mai l’attrice e non avrà alcun tipo di rapporto con lei, nonostante l’evidente passione bruciante. In numerose lettere lo scrittore fa riferimento ad un evento cruciale tra i due, una «atroce notte» a Como. 

Pare che in una notte d’autunno del 1925, in un hotel comasco (probabilmente il Grand Hotel Plinius), il Maestro raggiunse la camera della giovane donna e bussò alla porta, ricevendo in risposta un semplice buonanotte e un rammento in merito ai suoi anni e al suo ruolo. Pirandello era ben consapevole della differenza di età che c’era tra i due: quello tra i due fu, non solo un amore non corrisposto, ma soprattutto un sentimento platonico, realizzato solo nelle parole e messo in scena nelle sue opere.

È infatti lì che si concretizza l’amore che avrebbe voluto vivere, e viene a galla con una spregevole lucidità nell’opera Quando si è qualcuno: «Tu non l’hai compreso questo ritegno in me del pudore d’esser vecchio, per te giovine. E questa cosa atroce che ai vecchi avviene, tu non la sai: uno specchio e la desolazione di vedersi che uccide ogni volta lo stupore di non ricordarsene più, e la vergogna dentro, la vergogna allora, come d’una oscenità, di sentirsi, con quell’aspetto di vecchio, il cuore ancora giovine e caldo. Eh, tu sei viva e giovine, creatura mia; ecco, ancora così viva, che già sei mutata; puoi mutare tu, momento per momento, e io no, io non più».

Quello tra Pirandello e Marta Abba fu un amore platonico, che oscillava tra la profonda stima artistica e il disperato bisogno di una persona con cui condividere le parti più sconosciute della propria persona. Una forma di amore diversa, unilaterale, ma sicuramente potente. «Scrivimi, fatti viva, ho tutta la mia vita in Te, la mia arte sei Tu; senza il Tuo respiro muore» (Lettera a Marta Abba, Parigi, 10 Febbraio 1931).


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