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Pandemia: opportunità per essere umani o disumanizzazione della società?

A due anni dalla pandemia, cosa è rimasto della nostra umanità? L’unità di intenti e la lotta contro uno stesso male è riuscita a supportare l’idea di una collettività solidale o ha creato solo uno squarcio nel tessuto pubblico, disumanizzando la società?


La paura, nel corso della storia, è servita a prevenire l’estinzione e si è radicalizzata divenendo istinto di sopravvivenza. Adesso, però, rischia di compromettere la sensibilità umana alla base di tutte le relazioni sociali. 

L’ansia generata dalla pandemia e soprattutto la continua esposizione alle informazioni mediatiche sta sopraffacendo la nostra mente mettendola a rischio di paralisi. Ci si chiede pertanto quanto il desiderio di unione sociale può salvarci e quanto ancora il nostro senso critico potrà sopravvivere alla minaccia dell’irrazionalità dilagante. Siamo davvero destinati a un lento sgretolamento sociale dove ogni traccia di umanità subirà una lenta dissolvenza?

La stigmatizzazione sociale

La questione sociale è una questione antropologica: l’uomo antropos diviene civis grazie a uno sviluppo delle opportunità riconosciute nella cooperazione con gli altri. Le relazioni e le interazioni sono possibili là dove si comprende l’essenza di una società nel segno della solidarietà piuttosto che della marginalizzazione

In altre parole, una società funziona quando tutte le parti interagiscono per far sì che essa esista. Le epidemie, nel corso della storia, hanno accentuato la marginalizzazione generando invece una fisiologica disintegrazione del tessuto sociale. Contesti di crisi come quello che abbiamo vissuto fino ad oggi evidenziano le problematiche di una società già indebolita.

Le pandemie mondiali hanno storicamente fatto nascere ondate di stigmatizzazione e il Covid 19 non ha fatto eccezione. L’OMS definisce lo stigma sociale così: «Lo stigma sociale, nel contesto della salute, è l’associazione negativa tra una persona o un gruppo di persone che hanno in comune determinate caratteristiche e una specifica malattia. In una epidemia, ciò può significare che le persone vengono etichettate, stereotipate, discriminate, allontanate e/o sono soggette a perdita di status a causa di un legame percepito con una malattia».

Di fronte a una grave crisi sanitaria, la designazione di capri espiatori diventa un modo di agire piuttosto comune per esorcizzare la paura collettiva. La stigmatizzazione è il risultato di diffuse paure, grandi ansie o forti incertezze legate soprattutto alla disinformazione riguardo a una situazione ritenuta pericolosa. Spesso porta al rifiuto sociale o all’ostracismo di una persona o di un gruppo di persone che sono percepite come pericolose, indesiderabili, contrarie alle norme culturali del gruppo o della società a cui appartengono. Quello che oggi si rischia, ad esempio, con il sentimento contro i no-vax.

Fin dall’inizio della comparsa del Covid-19, sono molteplici gli episodi di marginalizzazione e razzismo segnalati. Da un punto di vista etico, queste sfortunate situazioni di ingiustizia e discriminazione, rimandano alla questione fondamentale della dignità umana.

La stigmatizzazione va a ledere il riconoscimento dei diritti uguali e inalienabili dell’uomo e conseguentemente la sua dignità, facendo crollare il fondamento garante di libertà e giustizia in una società.

Come si può parlare di unità?

La conoscenza, a causa di un’evidente sovrabbondanza di informazioni, sta generando l’effetto contrario a quello desiderato sulla nostra razionalità: piuttosto che creare consapevolezza del reale sta creando una paralisi del senso critico.

Si è creata una paura latente, invisibile, che ci rende irragionevoli e irrazionali: più ci informiamo meno consapevoli siamo del reale e meno mettiamo in atto comportamenti proattivi e solidali. La forte esposizione mediatica ha favorito una caccia alle streghe, una ricerca di un capro espiatorio che ha separato la comunità mondiale.

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Esilio e separazione. La disgregazione dell’altro

L’evoluzione della società ha visto l’uomo crescere in relazione agli altri uomini in una prospettiva che guardava al futuro. La situazione pandemica, invece, ha modificato il tessuto sociale proiettandolo verso un passato irraggiungibile e scoraggiando una speranza nel futuro. Confini immaginari, zone isolate di molteplici colori e distanziamento sociale hanno lacerato il senso di solidarietà sociale capace di creare un’unità di intenti e hanno separato gli uomini creando vere e proprie fazioni. Oggi si è diventati sì vax o no vax, vaccinati o non vaccinati, possessori di green pass o untori, non più semplicemente esseri umani.

Stiamo lentamente assistendo alla sparizione del mondo come lo abbiamo conosciuto e insieme ad esso al dissolvimento dell’altro, insieme a tutto ciò che esso rappresenta. L’altro era un’occasione di confronto, una proiezione del nostro io capace di farci crescere. Adesso l’altro è divenuto un alibi per tutte le nostre fragilità. L’altro è rimasto solo come ideale colpevole della normalità venuta a mancare.

L’uomo, da sempre, ha dovuto confrontarsi con la natura e ha dovuto riconoscere dei confini imperscrutabili. La pandemia però lo ha messo alle strette rivelandogli la sua impotenza. Riconoscendosi fallibile di fronte a una realtà che non può controllare, l’uomo ha iniziato a essere insofferente non tollerando l’insaturo della sua conoscenza. Ha origine così un sentimento di odio e di paura ratio e irrazionale.

Follia, psicosi, fantozziane teorie sull’origine del virus e idee casalinghe sui presunti rimedi mostrano come l’essere umano stia subendo un crollo della sua capacità di essere ragionevole. Sembrerebbe che l’incapacità di controllare la realtà stia lasciando l’uomo inerme.

Da Boccaccio e Manzoni al Covid: la paura del contagio 

Intorno alla retorica del contagio «esiste un immaginario condiviso fondato sulla negoziazione fra temere e sapere, fra sapere e sperare, fra verità che la società può tollerare e verità che non può sopportare. Il dubbio dell’uomo diviene scegliere fra felicità e salute, salute e lavoro, sicurezza del corpo sociale o individuale. Tra letteratura e cronaca, emerge il problema etico dell’accordo dei valori tra la comunità e il singolo uomo. In questa relazione entra in gioco l’argomento del contagio utilizzato in chiave persuasiva». (Passaro, Elvira. 2020. La retorica del contagio da Boccaccio al coronavirus: i casi della peste del ’300, del ’500 e del ’600 tra fonti storiche e letteratura. DNA – Di Nulla Academia 1. Bologna: 57-70).

La paura del contagio è parecchio trattata in letteratura. Dal Boccaccio al Manzoni, la peste e il contagio, sono simboli di rottura del patto sociale tra l’uno e il tutto alla base della comunità. Boccaccio vede nella peste la lacerazione “dell’onestamente andare”. La peste che si abbatte su Firenze è vista come un flagello voluto dalla giustizia divina, «per le nostre inique opere da giusta ira di Dio a nostra correzione mandata» e comporta, dunque, «la dissoluzione della legge civile, delle regole primordiali di convivenza fra gli uomini, dei legami di società, di vita morale, dei doveri di famiglia, delle corrispondenze naturali degli affetti». (G. Barberi-Squarotti, La «cornice» del «Decameron» o il mito di Robinson, in Da Dante al Novecento. Studi critici offerti dagli scolari a G. Getto nel suo ventesimo anno di insegnamento universitario, Milano, Mursia, 1970, pp. 109-158, p. 111.)

Manzoni, invece, presenta la peste ne I Promessi Sposi come la coabitazione di una pars destruens, volta alla critica delle autorità, delle idee e delle posizioni altrui e una construens capace di guidare l’uomo verso nuove forme di socialità, “da uomini a uomini”. (Passaro, Elvira. 2020. La retorica del contagio da Boccaccio al coronavirus: i casi della peste del ’300, del ’500 e del ’600 tra fonti storiche e letteratura. DNA – Di Nulla Academia 1. Bologna: 57-70)

Entrambi vedono nella malattia il riflesso del male sociale da guarire: mentre Boccaccio con il suo Decameron esalta l’intelligenza e fa un vero e proprio inno alla vita agli esseri umani, Manzoni vede la soluzione nella fede e nella cultura, ma entrambi con le loro opere invitano gli uomini a salvare la loro parte umana quando il mondo lentamente si muove verso un delirio di massa.

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La Peste di Camus, un testo capace di guidarci ancora oggi 

Anche Albert Camus racconta il dilagare della peste. Nella sua narrazione rappresenta in maniera molto serrata l’analisi psicologica di tutte le emozioni che oggi giorno stanno divenendo sempre più attuali. Camus parla dell’esilio, inteso come separazione degli affetti più cari ma anche come privazione di libertà. Racconta la paura della morte e dell’impotenza umana di fronte alle catastrofi naturali. Parla anche del coraggio, della consapevolezza, cui si perviene soltanto con il dubbio circa le verità acquisite, della giustizia, della risposta individuale di fronte a un male collettivo e della speranza, una speranza che può riportare a “essere felici insieme agli altri”.

La Peste di Camus, alla luce di quello che stiamo vivendo, è un testo capace di guidarci insegnandoci a non essere complici del male. Invita, tra le righe della sua narrazione, a recuperare dei valori nei momenti di maggiore criticità, a non considerarsi per sempre al sicuro, perché – come scrive Camus nell’epilogo del suo libro – il morbo della peste può celarsi per un tempo a noi sconosciuto per poi risvegliare i suoi ratti e mandarli a morire in una città felice. Può quindi tornare e diffondersi ovunque. 

In cosa trova la salvezza l’autore? Se come abbiamo visto in Manzoni l’uomo è salvato dalla fede e in Boccaccio dal vivere civile, Camus crede nella forza della solidarietà. Sostiene che è ancora possibile essere felici, ma ciò ha senso soltanto se si può essere “felici insieme agli altri “.

L’Unesco afferma che «la cultura sarà il bene comune per società resilienti». Alla luce di ciò che è stato detto è bello però ribaltare la lezione: non saranno i libri a essere attuali ma sono gli eventi storici che si ripetono a costringerci a ricavare una lezione di senso dai libri. Il senso che possiamo ricavare da un’attenta analisi psicologica, antropologica e letteraria della pandemia è l’estrema necessità dell’uomo di riprendersi e tenersi stretta la sua umanità.


Foto in copertina Standing Figures, Thomas Hawk

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