L’Etiopia, il Paese che non trova pace

A un anno dall’inizio del conflitto nella regione del Tigray Amnesty International lancia l’allarme: l’Etiopia è sull’orlo di una catastrofe umanitaria e dei diritti umani.


A un anno dall’inizio del conflitto nella regione del Tigray, il governo etiope di Abiy Ahmed fissa le condizioni per il cessate il fuoco, ma Amnesty International lancia l’allarme: «l’Etiopia è sull’orlo di una catastrofe umanitaria e dei diritti umani».

Abiy Ahmed, premio Nobel per la pace 2019, ha tradito la fiducia dei suoi elettori quando il 3 novembre del 2020 ha ordinato l’offensiva militare nella regione settentrionale del Tigray contro il Fronte di liberazione del popolo del Tigray (TPLF), gruppo politico di ribelli tigrini nato a metà degli anni ‘70 per combattere la dittatura militare e rimasto al potere per quasi tre decenni. 

Nel corso degli ultimi trent’anni, il governo del TPLF ha sistematicamente represso gli oppositori politici, sopratutto attraverso l’utilizzo della tortura all’interno di carceri, campi militari e uffici governativi. 

L’uso strumentale della tortura come atto politico ha reso ulteriormente complicato per le vittime avere accesso alle cure fisiche e psicologiche necessarie. A molte di loro è stato negato il trattamento sanitario, specie nelle aree rurali, mentre altre hanno avuto troppa paura per recarsi negli ospedali e nelle cliniche in quanto tali strutture «sono per coloro che sostengono il governo».

Con l’elezione di Abiy Ahmed, nell’aprile 2018, sembrava essere iniziata una nuova fase democratica per l’Etiopia. Il primo ministro, durante un discorso dinanzi al parlamento etiope, ha riconosciuto apertamente l‘utilizzo sistematico della tortura per motivi politici da parte dei governi precedenti e ha promesso che la sua amministrazione non avrebbe più tollerato tali atti. A dimostrazione di tale promessa ha disposto la chiusura di due dei più famigerati centri di detenzione, la stazione di polizia di Maekelawi e il carcere di Ogaden

Pochi mesi dopo sono però ricominciati gli scontri etnici e le violenze all’interno del paese e Ahmed si è dimostrato un leader debole, del tutto incapace di farvi diplomaticamente fronte.

«Ero per le strade a sventolare la bandiera del mio Paese quando abbiamo celebrato la vittoria elettorale di Abiy. Credevo che avrebbe interrotto il ciclo [della violenza] e che la mia generazione non avrebbe dovuto affrontare ciò che le nostre famiglie hanno vissuto. Ma qui stiamo ripetendo la storia. La nostra possibilità di salvezza si è esaurita quando Abiy ha deciso di sparare al nemico piuttosto che essere l’uomo superiore che pensavamo fosse e trovare un’altra soluzione». Con queste parole un abitante di Addis Abeba ha descritto l’incubo in cui l’Etiopia è ripiombata nell’ultimo anno, come riportato dal The Guardian.

Ahmed aveva promesso un’operazione rapida e indolore, della durata di appena 3-5 giorni, che non avrebbe causato la morte di alcun civile. Purtroppo la storia è andata in modo ben diverso.

La regione del Tigray è sotto assedio da un anno: 150 mila persone sono state uccise, 2,2 milioni di persone sono ad oggi sfollate; 60 mila etiopi si sono rifugiati in Sudan, e di questi un terzo sono bambini; 5,2 milioni di persone hanno bisogno di assistenza alimentare, mentre 400 mila persone vivono in condizioni di carestia.

La strage silenziosa

Il cibo, in Etiopia, è diventato un’arma di guerra e le persone stanno morendo di fame. A lanciare l’allarme sono i pochi operatori umanitari e funzionari locali che riescono a raggiungere la zona: la USAID, l’Agenzia degli Stati Uniti per lo sviluppo alimentare, ha denunciato che dal 20 agosto scorso è attivo il blocco dei rifornimenti di aiuti alimentari e dei convogli di cibo destinati al Tigray. Inoltre, quei pochi alimenti che giungono nella regione vengono frequentemente saccheggiati dai soldati, compiendo così altri soprusi a danno dei tigrini. 

Molti militari sono accusati anche di impedire agli agricoltori di raccogliere o arare, di rubare i semi per la semina e le loro attrezzature agricole e di uccidere il loro bestiame. Questo ha determinato l’abbandono delle terre da parte di molti contadini i quali, per impossibilità materiale o per paura di essere uccisi, non possono piantare nuovi raccolti e coltivare la loro terra. Il governo, naturalmente, nega ogni accusa ma, nonostante i tentativi delle autorità di nascondere il loro operato nel Tigray, le prove raccolte sono inequivocabili.

Violenze sessuali e torture nei campi

Come spesso accade nel corso di conflitti armati, lo strupro e altre forme di violenza sessuale sono state usate come armi di guerra da parte delle forze governative. Una sopravvissuta ha raccontato di essere stata «presa da un minibus da quattro soldati dell’EDF (eritrei) e trattenuta per 11 giorni». Successivamente, è stata «stuprata in gruppo da 23 soldati dell’EDF» e rilasciata solo in quanto ritenuta morta; per le violenze subite ha dovuto trascorrere quattro mesi in ospedale. La sua storia è la stessa di tante altre donne e ragazze. 

Le forze etiopi sono inoltre state accusate di aver adoperato la tortura all’interno dei campo militari, utilizzando cavi elettrici, aste di metallo ricoperte di plastica, bastoni di legno. Altro fallimento di Ahmed, altra promessa tradita.

Il ruolo dell’Eritrea all’interno del conflitto

Uno spazio centrale all’interno del rapporto è riservato all’Eritrea. Secondo il rapporto delle Nazioni Unite, infatti, le forze eritree, alleate del governo, individualmente o collettivamente hanno avuto «una enorme responsabilità» per molte delle violazioni denunciate. 

Il ministro dell’informazione eritreo, Yemane Meskel, ha negato che le truppe eritree fossero presenti nel Tigray e in una serie di tweet ha rigettato tutte le accuse, negando così l’evidenza: nel rapporto sono infatti stati riportati dettagli grafici specifici di stupri e mutilazioni compiuti da soldati eritrei ai danni di prigionieri tigrini.

La guerra ha gravemente colpito anche i rifugiati eritrei per i quali «per anni il Tigray è stato un rifugio (…) ma molti adesso non si sentono più al sicuro», come ricordato da Laetitia Bader.

Secondo l’Agenzia etiope per i rifugiati e i rimpatriati, prima del conflitto nei campi di Histats e Shimelba vivevano circa 19.200 dei rifugiati eritrei. In un recente rapporto, Human Rights Watch (HRW) ha denunciato le forze eritree e le forze tigrine in quanto avrebbero, alternativamente e in tempi diversi, attaccato a più riprese i due campi, uccidendo decine di persone, compiendo stupri e furti nei confronti dei rifugiati mentre questi ultimi cercavano una via di fuga. HRW ha ricevuto rapporti definiti credibili che riferiscono la morte di 31 persone nella sola città di Hitsats, ma presumibilmente il numero delle vittime è significativamente più alto.

Comunicazioni interrotte 

Comunicare con la regione è diventato estremamente difficoltoso a causa dell’imposizione, in tutta l’area, di un blocco governativo delle comunicazioni. Dal 3 gennaio 2020 sono state interrotte tutte le reti di telefonia mobile, i telefoni fissi e i servizi internet e l’accesso ai social media è stato bloccato. Inoltre, sono state sospese le licenze della BBC e di Reuters, le due principali fonti internazionali all’interno del Paese.

Giornalisti e ONG nel mirino

Dall’inizio dell’anno Amnesty International ha documentato retate di massa e detenzioni arbitrarie di tigrini, tra cui numerosi giornalisti e attivisti dei diritti umani. 

La situazione è peggiorata drasticamente con la proclamazione dello stato di emergenza da parte di Ahmed, lo scorso 4 novembre. Esso prevede, infatti, che le autorità possano arrestare chiunque e di detenerlo senza alcuna forma di controllo giurisdizionale e senza che sia necessario un mandato. È sufficiente il solo «ragionevole sospetto [di cooperazione con] gruppi terroristici». A finire nel mirino delle autorità potrebbero essere in particolare i giornalisti e  gli operatori umanitari.

Esso consente anche la sospensione o cancellazione delle licenze delle ONG e dei media se sospettate di fornire supporto materiale o morale, diretto o indiretto, a «organizzazioni terroristiche». 

Lo stato di emergenza non sarebbe altro che lo strumento idoneo per imbavagliare qualunque forma di opposizione. Laetitia Bader, direttrice per il Corno d’Africa di Human Rights Watch, ha evidenziato come «le restrizioni colpiscono i servizi essenziali, la segnalazione di eventi critici e le indagini sui diritti umani e potrebbero rischiare di peggiorare ulteriore una già brutta situazione umanitaria».

E infatti, ben quattro agenzie umanitarie che operano nella regione hanno riferito a Human Rights Watch che le loro attività sono state duramente ostacolate dal blocco delle comunicazioni, dal momento che non riescono a ottenere informazioni relative alla situazione umanitaria.

L’ostruzionismo di Stato

Attualmente l’unica fonte ufficiale in materia di  diritti umani è rappresentata dall’indagine condotta congiuntamente dalle Nazioni Unite e dall’Etiopia nella regione del Tigray.

Si tratta di una collaborazione portata avanti dall’ONU con estrema difficoltà. Le autorità hanno infatti tentato di limitare l’attività investigativa e recentemente hanno espulso un membro dello staff delle Nazioni Unite che vi ha collaborato, non fornendo alcuna prova che giustificasse tale decisione.

Nonostante l’ostruzionismo etiope l’indagine ha prodotto i suoi risultati: la pubblicazione del rapporto più completo finora sul conflitto. 

Il report, rilasciato il giorno dopo che il Presidente ha dichiarato lo stato di emergenza, si basa su 269 interviste (124 donne e 145 uomini) e documenta l’orrore che da un anno insanguina uno dei paesi chiave del Corno d’Africa.

Michelle Bachelet, Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani, ha affermato che ci sono «ragionevoli motivi per credere [che] tutte le parti nel conflitto del Tigray abbiano commesso violazioni dei diritti umani internazionali, del diritto umanitario e dei rifugiati. Alcuni di questi possono equivalere a crimini di guerra e crimini contro l’umanità». Bachelet, inoltre, sottolinea che «i civili del Tigray sono stati sottoposti a brutali violenze e sofferenze», vittime di massacri, sevizie, rappresaglie.

Il dialogo e il raggiungimento di una soluzione politica sono le richieste avanzate dall’ex presidente nigeriano Olusegun Obasanjo, inviato dell’Unione Africana nella regione. Obasanjo, durante una recente visita in Etiopia, ha incontrato entrambe le parti e al termine dei colloqui ha parlato di una piccola «finestra di opportunità» e soprattutto ha affermato che il «tempo è breve per qualsiasi intervento». La paura più grande è infatti che il conflitto entri in una nuova e sanguinosa fase, con combattimenti in tutto il Paese.


Immagine in copertina di Crown Copyright 2011, NZ Defence Force

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