Afghanistan, qual è il suo futuro economico?

La partenza delle truppe occidentali e la riconquista del Paese da parte dei talebani lasciano profonde incognite sulla robustezza dell’economia nel prossimo futuro.


I dati della Banca Mondiale sono un buon punto di partenza per capire l’attuale situazione economica dell’Afghanistan. La media di crescita del Prodotto Interno Lordo degli ultimi cinque anni si è aggirata intorno al 2,5%, mantenendo una crescita che possiamo definire bassa per un paese sottosviluppato. Il dato più preoccupante per l’economia afgana è la dipendenza di finanziamenti dall’estero che rappresentano il 42,9% del Pil, quasi la metà della ricchezza prodotta annualmente nel Paese.

La riduzione della presenza delle truppe straniere, verificatasi negli ultimi anni, ha ridotto la consistenza del settore dei servizi rendendo ancor più centrale il settore agricolo che rappresenta il 60% della fonte di reddito delle famiglie. La debolezza economica del Paese impatta anche sulla sua bilancia commerciale che presenta un deficit di circa il 30%. A peggiorare ulteriormente la situazione è la composizione della spesa pubblica dove i prestiti dall’estero rappresentano il finanziamento di circa il 75% del totale.

Un altro dato di una certa rilevanza riguarda le riserve valutarie detenute dalla Banca Centrale Afgana, la Da Afghanistan Bank (DAB). Secondo il suo ultimo Presidente, Ajmal Ahmady, le riserve afgane sarebbero di circa dieci miliardi ma la maggior parte di questi sarebbero al di fuori del controllo talebano perché depositate presso la Federal Reserve (circa 7 miliardi), presso la Banca dei Regolamenti Internazionali (circa 700 milioni) e presso conti esteri (circa 1,3 miliardi). Circa i nove decimi delle riserve sarebbero ben al di là del controllo del nuovo governo. Governo che non potrebbe in ogni caso usufruirne perché i talebani risultano ancora nella lista nera, come organizzazione terroristica.

Una composizione dell’economia siffatta, come è evidente, presenta numerosi problemi di sostenibilità, in particolare, se i Paesi occidentali dovessero decidere di bloccare del tutto sia i finanziamenti sia l’accesso alle riserve per la neonata Repubblica Islamica. In parte, questo blocco dei finanziamenti è già iniziato con il Fondo Monetario Internazionale che ha bloccato le sue linee di credito verso il Paese già il 18 agosto, seguito qualche giorno più tardi dalla Banca Mondiale, come dichiarato alla stampa.

Un primo effetto di quanto potrebbe accadere è stato già sperimentato dalla popolazione afgana in questi giorni dove l’accesso ai propri risparmi, depositati nel settore bancario, attualmente serrato, è stato quasi totalmente precluso, se si escludono gli sporadici prelievi disponibili presso i circuiti degli Automated Teller Machine (ATM).

Un altro sintomo evidente del cambiamento della situazione è il rincaro dei prezzi dei generi di prima necessità cresciuti anche del 30%, dovuto, con buona probabilità, al calo del valore della valuta afgana del 10% rispetto al dollaro che, dato il mostruoso deficit commerciale, si è riverberato su un maggiore costo delle importazioni. A peggiorare la situazione è l’assenza di pagamento dei salari nei confronti dei dipendenti pubblici che si trovano quindi, al momento, senza salario e senza possibilità di accesso ai propri risparmi.

Un peggioramento della situazione economica è nello stato delle cose, almeno nel breve periodo, a meno che i Paesi Occidentali non riaprano i cordoni della borsa. Lo scenario più probabile è un ulteriore indebolimento della moneta afgana, non sostenuta peraltro dalle riserve di liquidità della Banca Centrale sotto controllo degli Stati Uniti. Questo comporterà un forte aumento del costo dei beni provenienti dall’estero, di cui l’Afghanistan è fortemente dipendente – come si evince dalla bilancia commerciale – seguito da un quasi certo aumento dell’inflazione. Come si può intravedere la situazione potrebbe diventare incandescente e difficile da gestire da parte del nuovo governo talebano.

(Bryan Denton/The New York Times)

Nel medio periodo la situazione è più difficile da prevedere. A fronte di una totale chiusura internazionale, cosa che non sta avvenendo nemmeno adesso visti gli aiuti che provengono dal Qatar, una delle poche vie di uscita per il Paese potrebbe essere riprendere la sua forte produzione di stupefacenti. La produzione di oppio e anfetamine non si era fermata neanche sotto il governo sostenuto dagli Occidentali, ma era senza dubbio rallentata anche grazie agli aiuti per la riconversione delle attività agricole, sponsorizzati dai Paesi Occidentali e dalle organizzazioni internazionali. 

Bisogna sottolineare, però, come questo scenario potrebbe essere facilmente smentito dai fatti. Infatti, la struttura economica delle aree guidate dai talebani si è caratterizzata per il controllo degli assi commerciali, imponendo una sorta di tributo sul transito che ha finanziato l’attività economica. Questo tipo di finanziamento potrebbe essere replicato a livello statale ma non è detto che riesca a coprire la spesa pubblica del Paese. Questo perché con la partenza degli occidentali l’attività commerciale è essa stessa destinata a ridursi con una conseguente riduzione dei traffici.

Per chiarire ulteriormente il concetto, i 15.000 militari di stanza che erano presenti nel Paese creavano una domanda e un volano economico non indifferente per quell’area, oltre a essere garanzia di investimenti e infrastrutturazione esteri che non è detto si riesca a mantenere. Si trattava di una massa ingente di persone che, con la propria domanda, rafforzava l’economia afgana e che, al contempo, grazie agli investimenti necessari in sicurezza e infrastrutture, manteneva condizioni delle reti efficienti, in particolare viarie e telematiche, su cui il nuovo governo potrebbe mostrare tutti i suoi limiti.

Molto del futuro afgano dipende, però, dal rapporto che la nuova classe dirigente sarà in grado di costruire col potente vicino orientale: la Cina. Gli interessi economici cinesi potrebbero essere importanti ma la comunanza religiosa fra talebani e minoranza uigura, stanziata nei pressi del confine afgano, potrebbe rappresentare quantomeno una fonte di diffidenza se non un forte ostacolo. 

Al netto del problema religioso, gli interessi cinesi nell’area potrebbero essere imponenti e legati, da una parte, alla centralità geografica e commerciale dell’Afghanistan, d’altra parte alla ricchezza mineraria del sottosuolo. Per quel che concerne il primo punto non bisogna dimenticare che, sebbene di piccole dimensioni, sia presente un confine fisico fra Cina e Afghanistan, rappresentato dal cosiddetto corridoio di Wakhan. Questo corridoio unisce la provincia del Badakhshan afgano con la provincia dello Xinjiang cinese, dove è fortemente radicata la minoranza uigura, e potrebbe rappresentare un corridoio “di scorta” per la “via della seta” cinese, in particolare se l’area venisse stabilizzata da parte dei talebani. 

Per quanto riguarda il secondo punto, la ricchezza mineraria dell’Afghanistan è considerata enorme. In particolare, un minerale di cui sarebbe ricco e che potrebbe fare molta gola al potente vicino è il litio. Esso è centrale nella produzione della componentistica elettronica e delle batterie di cui la Cina è uno dei principali produttori mondiali.

Date le condizioni dell’economia del Paese dell’Asia centrale, risulta più chiaro anche il motivo per il quale i talebani stanno cercando di tranquillizzare la comunità internazionale mostrando un volto “moderato”. Sono ben coscienti di come l’economia dell’Afghanistan sia fortemente dipendente dagli investimenti stranieri e sono consapevoli che un drastico taglio di questi ultimi o, peggio, l’applicazione di un embargo, possa metterli in forte difficoltà dal punto di vista del sostegno popolare e non solo. Infatti, anche dal grado di apertura del Paese con l’estero, dal suo sostegno internazionale, e dalla sua stabilità interna dipende il suo futuro economico.


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