Reddito di cittadinanza e lavoratori stagionali, l’importanza della giusta retribuzione

Il dibattito sul reddito di cittadinanza e la voglia di lavorare dei giovani spinge a riflettere sull’importanza della giusta retribuzione.


È ancora acceso il dibattito venuto alla luce poco più di un mese fa quando, all’indomani del via all’apertura dei pubblici esercizi, ristoratori, hotel e stabilimenti balneari hanno iniziato a contestare il reddito di cittadinanza e la poca voglia di lavorare dei giovani. Secondo quanto denunciato, i lavoratori stagionali preferirebbero rimanere a casa senza lavoro e con il sussidio del reddito di cittadinanza piuttosto che accettare proposte lavorative. A oggi, luglio inoltrato, mancano all’appello circa 150mila lavoratori tra camerieri, cuochi, barman e bagnini. 

Ricordando che l’importo del reddito di cittadinanza non è sempre adeguato a coprire le spese di sussistenza – poiché il suo ammontare è calcolato sulla base di una serie di elementi – il rifiuto di un contratto lavorativo, soprattutto del tipo stagionale, molto spesso riguarda condizioni non adeguate e non rispetta il reale fabbisogno che i datori di lavoro richiederebbero. Inoltre, un contratto di lavoro a tempo determinato e stagionale presenta degli aspetti normativi diversi rispetto a un contratto a termine normale e l’elemento della precarietà è qui ancora più evidente.

Il contratto collettivo dei pubblici esercizi prevede, per esempio, tutta una serie di condizioni a favore del lavoratore che molto spesso vengono negate: il caso più evidente è la quattordicesima mensilità, prevista ma mai pagata in busta paga. Aggiungiamo, poi, ferie e permessi maturati, mai fruiti e non riconosciuti al momento della cessazione del rapporto di lavoro. Orario supplementare o straordinario inesistente.

Ancora – questione non limitata solo al settore turismo e ristorazione – la pessima abitudine di inquadrare e assumere un lavoratore in livelli bassi e per un numero di ore minore rispetto a quelle effettivamente richieste e svolte. A ciò va aggiunta, in ultimo, anche la ripresa dell’attività lavorativa ma con la richiesta della cassa integrazione, con azzeramento dei costi del lavoro e paga ulteriormente ridotta a discapito dei lavoratori e dello Stato. 

La denuncia da parte dei lavoratori è chiara: la voglia di lavorare è presente, soprattutto dopo aver passato quasi due anni senza possibilità alcuna, ma non a condizioni di schiavitù. Chiedere a un lavoratore di fare un turno di 12 ore, quando la sua paga giornaliera è di quattro ore, manifesta una forma di schiavismo moderno. La tendenza che si è avuta negli anni è stata quella di portare il lavoratore a svalutare se stesso e le proprie capacità in un gioco al ribasso. Per tale motivo si è propensi, e in modo sbagliato, a considerare alcuni lavori di secondo ordine e a contrattare condizioni sfavorevoli per i lavoratori utilizzando molto spesso frasi dequalificanti come “queste sono le condizioni: se non ti piacciono ne trovo altri al posto tuo”.

Queste e tante altre espressioni iniziano a non avere più presa, soprattutto sui giovani. Studiare per specializzarsi nel settore del turismo e della ristorazione richiede molti più sforzi di quanto si possa immaginare: chef, pasticceri, sommelier di vino e olio, caposala, sono tutti mestieri che richiedono molto studio di settore e anche delle lingue.

La specializzazione, le ore di studio e di gavetta trovano poco riscontro, poi, con quanto offerto sul mercato del lavoro. Si stanno ipotizzando, in questo contesto, situazioni di regolarizzazione del rapporto lavorativo seppur a condizioni sfavorevoli, ma ancor peggio è la situazione del lavoro nero: mal pagati e senza diritti e contributi versati. La situazione drammatica è emersa proprio in questo periodo, quando lo Stato ha riconosciuto agli stagionali, particolarmente colpiti dalla pandemia, dei bonus di sostegno che molti lavoratori non sono riusciti a ottenere perché assunti con date non corrette o perché a nero. 

Che le aziende mostrino una sofferenza nel sostenere costi di gestione e costi del lavoro è un problema ormai decennale, enfatizzato oggi dalle chiusure forzate degli ultimi due anni di pandemia. Il costo del lavoro non si è alleggerito, i sussidi statali sono stati inadeguati, le agevolazioni alle assunzioni aspettano ancora il via libera dalla Commissione europea, la burocrazia ostacola il lavoro.

Nonostante il particolare momento storico che stiamo attraversando, la mentalità imprenditoriale italiana del trovare modi meno onerosi rispetto a quelli dettati dal diritto del lavoro non è venuta meno: sono davvero poche le aziende in Italia che comprendono come il riconoscere quanto dovuto ai propri dipendenti non debba essere visto solo come un costo, bensì un investimento.

Un lavoratore pagato correttamente sulla base di quanto stabilito dai contratti collettivi e dalle tabelle retributive, incoraggiato e apprezzato per i suoi sforzi quando lo merita, difficilmente rifiuterà una proposta di assunzione. Offrire un contratto reale e trasparente, che venga rispettato in ognuna delle sue parti, con i corretti contributi versati, con il rispetto delle ore stabilite e del riposo settimanale, dovrebbe essere la normalità, non l’eccezione. Ciò basterebbe a spronare il lavoratore a fare bene e a fare meglio, anche il non richiesto, perché fidelizzare e scommettere sui lavoratori è il primo successo per la propria attività.