Quelle divise sporche di sangue nero

Secondo il rapporto Onu sull’eccessivo uso della forza contro africani e afro-discendenti, sono almeno 190 gli «incidenti mortali» messi in atto dalle forze di polizia di tutto il mondo.


Il 25 maggio 2020, a Minneapolis, in Minnesota, sotto alla divisa e al ginocchio di Derek Chauvin, a George Floyd mancò il respiro. Otto minuti e quarantasei secondi di «particolare crudeltà» uccisero un uomo, e ne sollevarono milioni.

Dopo una mobilitazione globale per la giustizia razziale e la storica sentenza di condanna per omicidio, l’Alto commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani, Michelle Bachelet, chiede nel suo nome a tutti Stati di «smettere di negare, e iniziare a smantellare il razzismo», che, ormai «sistemico», infetta e consuma società e istituzioni come un morbo.

Parole d’accusa all’intera comunità internazionale, che arrivano a commento del rapporto sull’uso eccessivo della forza contro africani e afro-discendenti, e le altre violazioni dei diritti umani e delle libertà fondamentali messe in atto dalle forze dell’ordine in tutto il mondo, con Stati Uniti, America Latina, ed Europa in testa. Un sistema fondato su un razzismo radicato e raramente punito.

All’esame dell’Ufficio Onu per i diritti umani (Ohchr), sono almeno 190 gli «incidenti mortali» provocati negli ultimi dieci anni da «colpi di arma da fuoco fatali, uso sproporzionato o non necessario di misure restrittive, uso di armi meno letali, o una combinazione di esse», accaduti principalmente nei contesti di reati minori, fermi stradali, arresti e perquisizioni, di interventi nelle crisi di salute mentale, di operazioni legate alle bande o alla droga.

I corpi a terra sono quelli di africani e afro-discendenti. Le mani che uccidono, quelle di poliziotti bianchi. Stereotipi e pregiudizi istituzionali a incorniciare uccisioni, inchieste, e processi; nella diffusa “presunzione di colpa” contro l’uomo nero,  l’accertamento delle responsabilità resta un miraggio.

Sette i casi esemplari: Luana Barbosa dos Reis Santos e João Pedro Matos Pinto (Brasile); George Floyd e Breonna Taylor (Stati Uniti); Kevin Clarke (Regno Unito); Janner García Palomino (Colombia) e Adama Traoré (Francia).

«Ad eccezione del caso di George Floyd, nessuno è stato ritenuto responsabile» – ha ripetuto in conferenza stampa Mona Rishmawi, a capo della sezione sullo Stato di diritto, l’uguaglianza, e la non-discriminazione di Ohchr.

Paesi diversi, sistemi legali diversi. Eppure, «somiglianze sorprendenti» a rivelare – si legge tra le pagine del rapporto pubblicato la scorsa settimana – «un quadro allarmante di impatti a livello di sistema, sproporzionati e discriminatori sulle persone di origine africana nei loro incontri con le forze dell’ordine e il sistema di giustizia penale in alcuni Stati».

Forti le preoccupazioni per «un’eccessiva sorveglianza dei corpi e delle comunità nere, che li fa sentire minacciati piuttosto che protetti», come anche per la «criminalizzazione dei bambini di origine africana» negli ambienti scolastici.

Dall’indagine, commissionata dal Consiglio Onu per i diritti umani all’indomani di quell’omicidio in diretta che il fiato sembrò spezzarlo alle coscienze di tutti noi, emerge che abolizione della schiavitù, fine del commercio transatlantico e del colonialismo non hanno sradicato politiche e pratiche discriminatorie razziali.

Anzi, quelle che in rapporto sono citate come «disuguaglianze aggravanti» e «forte emarginazione socioeconomica e politica», che fanno da culla ai modelli di tolleranza della violenza praticata da chi dovrebbe essere Stato contro le minoranze, persistono con maggiore vigore proprio nei Paesi che di quella storia forgiata sullo «svilimento dello status degli individui nella società» hanno fatto a lungo la propria bandiera. 

La «realtà quotidiana di disumanizzazione, emarginazione, e negazione dei diritti» – per usare ancora le parole di Rishmawi – che le donne e gli uomini di origine africana vivono nelle società delle “Nazioni avanzate” è quasi una questione ereditaria. Una tradizione di discriminazione, di disuguaglianza e di sopruso, prosperata nell’accondiscendenza degli indifferenti.

Che chi ha la pelle nera viva «in modo sproporzionato nella povertà» e debba giorno per giorno affrontare «gravi ostacoli nell’accesso ai diritti all’istruzione, all’assistenza sanitaria, all’occupazione, a un alloggio adeguato e all’acqua pulita, nonché alla partecipazione politica e altri diritti umani fondamentali», non ne è che l’eco.

Le divise sporche del sangue di africani e afro-discendenti, e ancor di più l’impunità di cui gli agenti di polizia che ne violano i diritti umani godono con un’ordinarietà tale da percepirsi come quasi garanzia, di quella tradizione che non ha mai smesso di farsi presente sono l’affermazione istituzionale.

Soffriamo di razzismo. È un fatto, non un esercizio retorico, non un’astratta congettura. Ed è nella continua, marcata ritrosia delle persone e dei governi a riconoscere quanto è accaduto e accade ancora dove sta il vero, grande fallimento. 

È tempo – ripete il rapporto – di «fare ammenda per secoli di violenza e discriminazione, anche attraverso riconoscimento formale e scuse, processi di verità, e riparazioni in varie forme». Da qui deve partire l’azione globale per l’abolizione delle ingiustizie razziali: il passato ha un peso, e finora «nessuno Stato ne ha davvero tenuto conto».

Proprio per aver il merito di «fornire alle persone la struttura e la forza necessarie per rivendicare i propri diritti umani», movimenti e gruppi come Black Lives Matter «dovrebbero ricevere finanziamenti, riconoscimento pubblico, e sostegno».

«Gli Stati – ribadisce Bachelet – devono mostrare una volontà politica più forte per accelerare l’azione per la giustizia razziale, il risarcimento e l’uguaglianza. […] Ciò comporterà la rivisitazione delle attività di polizia e la riforma del sistema di giustizia penale, che hanno costantemente prodotto risultati discriminatori per le persone di origine africana».

Se, come lo è, il problema è sistemico, è dal ricostruire il sistema dalle sue radici che bisogna ripartire. Ed è già tardi: «Abbiamo bisogno di un approccio trasformativo che affronti le aree interconnesse che guidano il razzismo e portano a tragedie ripetute, del tutto evitabili, come la morte di George Floyd. […] Non ci sono scuse per continuare a evitarlo», spiega l’Alto commissario.

A George Floyd – citiamo il memorandum a sentenza del giudice Cahill – fu «negato il rispetto e la dignità propria di ciascun essere umano». Il suo «I can’t breathe», sussurrato con un filo di vita e di voce, si è fatto il grido di protesta più forte di sempre, quello che ci «ha costretto alla resa dei conti, a lungo ritardata, con il razzismo». Sarà il caso di dirlo a sua figlia che forse «Papà ha cambiato il mondo!» per davvero.


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