La mancanza di lavoratori stagionali dipende dal Reddito di Cittadinanza?

Molti imprenditori lamentano di non riuscire a trovare camerieri, baristi, cuochi. Si pensa che la colpa sia del Reddito di Cittadinanza. Ma è davvero così?


L’Italia è il Paese del sole, del mare e delle bellezze naturali e architettoniche. Siamo conosciuti in tutto il mondo per il nostro patrimonio artistico, naturale e culturale. L’estate è la stagione che attrae turisti da tutto il mondo e, nonostante la pandemia, si sta assistendo a una ripartenza fiduciosa. Dai dati che emergono dall’indagine di Demoskopika sui flussi turistici del nostro Paese, si rileva che già sono 25 milioni i pernottamenti prenotati – in rialzo del 15,3 per cento rispetto allo scorso anno – e 12,3 milioni gli arrivi che si prospettano tra giugno e settembre. 

Nonostante la ripresa in atto, molti imprenditori lamentano che sia diventato difficile riuscire a ingaggiare camerieri, baristi e cuochi, cioè tutte quelle figure che concretamente mandano avanti il settore e senza le quali la macchina del turismo si ritroverebbe sprovvista della sua linfa vitale.

Gli stessi imprenditori più volte hanno lamentato che tale disagio scaturisca dai sussidi che lo Stato ha stanziato per sostenere le famiglie in difficoltà, come il Reddito di Cittadinanza.

La loro posizione è che chi dovrebbe lavorare non lo fa perché ha la certezza del beneficio economico e quindi preferisce rimanere a casa pagato, anziché cercare un lavoro e faticare per sostentarsi. Ma la realtà è veramente questa? Le persone non vogliono più andare alla ricerca di un lavoro?

La questione è più complessa rispetto a ciò che si potrebbe pensare a una prima analisi. Giovanni Cafagna, Presidente dell’Associazione Nazionale Lavoratori Stagionali (ANLS), il primo sindacato nazionale che difende i diritti di questa categoria, evidenzia come i lavoratori stagionali vengano sfruttati al di là di ogni limite: ad esempio, lo stipendio base di un cameriere dovrebbe essere 1.400 euro, come stabilito dagli accordi di categoria, ma nei fatti ciò accade di rado. Molto spesso le paghe non raggiungono neanche i 900 euro mensili, lavorando anche più di dieci ore al giorno.

Il problema degli stagionali esisteva già da tempo, l’emergenza sanitaria ha solo amplificato la questione. Secondo Cafagna, per la categoria (o almeno parte di essa), una posizione di minor tutela si è creata con l’introduzione della nuova Nuova prestazione di Assicurazione Sociale per l’Impiego (NASpI) che di fatto, a partire dal 2015, ha dimezzato la durata dell’indennità di disoccupazione fino a un massimo di 3 mesi. In questo modo, i lavoratori si trovano sprovvisti di una copertura economica durante i mesi invernali.

Dal sindacato emerge una realtà difficile: le paghe non sono proporzionate al lavoro svolto, per non parlare del fatto che gli orari di lavoro molto spesso non vengono rispettati. Le 40 ore settimanali sono solo sulla carta: nella pratica, invece, si lavora sette giorni su sette, anche per 70-80 ore a settimana, senza che ci sia una retribuzione adeguata. 

Secondo molti esperti, il problema non è il sostegno economico garantito alle persone in povertà, ma la qualità non adeguata delle offerte contrattuali. Per comprenderlo basta citare i dati dell’INPS di maggio 2021, secondo cui circa 175 mila nuclei familiari ricevono l’assegno il cui importo è pari a circa 582 euro in media al mese. Una cifra abbastanza bassa che pone l’attenzione più sul tipo di contratto che si riceverebbe rispetto a quanto si percepisce con il Reddito di Cittadinanza. 

I lavoratori stagionali sono precari, con stipendi bassi al di sotto della media, non sempre regolari e con turni che hanno un orario certo di inizio, ma non di fine. Non sono rari i casi in cui al contratto regolare di venti ore settimanali si aggiungono molte altre ore in nero, con orari e salari decisi unilateralmente dal titolare.

I sindacati rendono noto che questa realtà è presente in particolar modo, nelle regioni maggiormente turistiche. Christian Ferrari, segretario regionale della Cgil Veneto, una delle regioni italiane in cui negli ultimi giorni si è più discusso della mancanza di lavoratori stagionali ha dichiarato: «L’importo medio dimostra la mistificazione della presunta convenienza del reddito di cittadinanza», aggiungendo che «il vero problema è che nel turismo vengono offerti posti di lavoro di scarsissima qualità, con salari da fame. La precarietà è altissima e le zone di “nero” sono ampie. L’ispettorato del lavoro ha registrato irregolarità nella gestione dei dipendenti nel 73 per cento delle aziende ispezionate».

Sul tema in oggetto è intervenuta anche la Cgil Emilia-Romagna  che ha chiesto di porre fine alle solite lamentele. Secondo il sindacato, ritenere che il reddito di cittadinanza e i bonus erogati ai lavoratori e alle lavoratrici stagionali durante i 15 mesi di emergenza pandemica disincentivino i giovani ad accettare proposte di lavoro nel turismo è una “narrazione falsa e lontana dalla realtà”. 

L’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro (art. 1 Cost.), il lavoro è un diritto e tutti dovrebbero poter lavorare contribuendo alla crescita della società, preservando la propria salute fisica e mentale, essendo persone e non macchine. Il lavoratore deve essere tutelato, perché il limite tra affermare che la “gente non vuol lavorare” e avere condizioni di lavoro che non rispettino i diritti costituzionali è labile.

Forse, per avere una risposta certa sul fatto che le persone non vogliano lavorare e preferiscono il reddito di cittadinanza dovremmo dapprima risolvere alcuni problemi. Fra questi la presenza del sistema di applicazione di cosiddetti ‘contratti pirata’. Si tratta di alcuni contratti collettivi sottoscritti da sindacati minoritari e associazioni imprenditoriali, poco rappresentativi delle parti sociali, con l’obiettivo di costituire un’alternativa ai contratti collettivi nazionali cosiddetti “tradizionali”. Una pratica del genere crea una condizione di concorrenza sleale in quanto mira a introdurre minori diritti per i lavoratori. 

Un’altra questione è l’elevata precarizzazione del lavoro e non da ultimo il ricorso al lavoro in appalto con l’utilizzo di personale non assunto direttamente dall’impresa ma fornito da terzi e ulteriormente sottopagato.

Alla luce di quanto detto, allora, una domanda sorge spontanea. Siamo sicuri che avendo la possibilità di lavorare con un contratto regolare, con una paga minima garantita dai contratti di categoria, con un orario di lavoro che venga rispettato, e con gli straordinari riconosciuti e retribuiti, alla domanda “Vorrebbe accettare il lavoro?” la risposta sarebbe: “No, grazie! Preferisco il reddito di cittadinanza”?