Le divise delle atlete: diversi sport, stesso problema

Le Olimpiadi di Tokyo sono un’occasione importante per parlare di grandi atleti e atlete, certo, ma anche di sessualizzazione e di spettacolarizzazione del corpo della donna.


Nel 19esimo secolo, quando alle donne dell’alta borghesia inglese fu finalmente permesso di impegnarsi in giochi come il tennis sull’erba, il loro abbigliamento era adeguatamente “femminile”, modesto e progettato per attirare un potenziale marito piuttosto che migliorare il loro atletismo.  Le sportive di oggi stanno ancora navigando nel mare di convenzioni del codice di abbigliamento, ma adesso, complice il processo di empowerment e autodeterminazione iniziato nel Novecento, alcune atlete (sia singole che in squadra) si oppongono apertamente. 

Proprio questo mese, la squadra femminile di beach handball norvegese è stata multata per “abbigliamento improprio” durante i Campionati Europei in Bulgaria per aver scelto di indossare i pantaloncini invece dei bikini succinti richiesti; secondo il Regolamento datato 2014 della Federazione Internazionale di Pallamano l’abbigliamento dovrebbe presentare «un taglio aderente e tagliato con un angolo verso l’alto verso la parte superiore della gamba» e avere una larghezza laterale massima di 10 cm. La cantante Pink, che anche nelle sue canzoni e videoclip invita le donne all’indipendenza e all’emancipazione dal sistema patriarcale, si è offerta di pagare la multa per loro. 

Passando a un altro sport, la regola secondo cui i giocatori di tennis (oggi la regola è limitata a Wimbledon) devono indossare il bianco, risalente all’era vittoriana – con l’influenza dell’abbigliamento da cricket e dal desiderio di mantenere i giocatori freschi per ridurre al minimo le macchie di sudore improprie – è diventata un altro modo per mantenere questo sport destinato a una classe medio-alta, un’attività di “classe superiore”. 

«Il bianco simboleggia la purezza e la virtù, riflettendo l’autopercezione della classe da cui il tennis ha derivato la maggior parte dei suoi giocatori» spiega Robert J. Lake, autore di A Social History of Tennis in Britain e Routledge Handbook of Tennis: History, Culture e Politics. La regola ha avuto un ruolo nel mantenere le persone che non rispecchiano lo standard dell’alta borghesia vittoriana fuori dai club di tennis. 

Negli anni ’70, racconta Lake, le donne si resero conto che per competere con gli uomini in termini di premi in denaro, dovevano fare di più che giocare bene; Tinling, stilista, giornalista e tennista, ha lavorato con Billie Jean King durante la partita della battaglia dei sessi del 1973 e con il resto delle Original Nine, il gruppo di tenniste professioniste che hanno combattuto per la parità di diritti delle donne nello sport. Tinling ha lavorato per renderle più glamour ed attraenti, al fine di portare più spettatori al circuito del tennis femminile. Tuttavia  questa tattica ha anche incoraggiato i fan a pensare alle tenniste (e le sportive in generale) come oggetti del desiderio sessuale.

Per la calciatrice in pensione Briana Scurry, il calvario che la squadra di beach volley norvegese sta affrontando è “furioso” e “assurdo” e non sconosciuto. Scurry, che ha giocato in tre Coppe del Mondo e ha due medaglie d’oro olimpiche, ha ricordato di aver rappresentato gli Stati Uniti alle Olimpiadi negli anni ’90 e la squadra femminile indossò «maglie e pantaloncini usati dalla squadra maschile» perché lo sponsor aveva realizzato le divise pensando solo alla squadra considerata “principale”.

È sport, ma per molti è un film erotico

Tutti ricordiamo il momento in cui Paola Pezzo nel 1996 si abbassa leggermente la zip lasciando aperto quel benedetto body per l’afa opprimente. Giornali e magazine, da quel momento, si concentrarono su quel gesto apparentemente innocuo ma che, per il piacere dei voyeurs, condanna la Pezzo ad affermazioni e titoli quali “la zip birichina” o “sex symbol”. 

Si legge, per stessa ammissione della Pezzo: «Ricordo che era una giornata caldissima e che mi slacciai la zip della maglia per respirare meglio. Fu un gesto istintivo. Poi mi arrabbiai molto, preferivo essere complimentata per la medaglia d’oro olimpica e non per aver mostrato un po’ di seno. Però devo essere sincera, divenni famosa per quell’immagine». Infatti guadagnò un contratto per firmare una linea di abbigliamento

Alla paralimpica gallese Olivia Breen, di contro, è stato detto che la sua uniforme era “inappropriata, troppo corta”. Insomma, pare che non ci sia modo che le atlete gareggino con l’abbigliamento che le fa stare più a loro agio? Perché bisogna sempre concentrarsi su come le donne vadano vestite in qualsiasi occasione? Perché questa ossessione per come decidiamo di coprire o scoprire il nostro corpo? Molte atlete hanno descritto come la cultura dello sport abbia fin troppo tollerato un ambiente che favorisce la trasformazione di atlete giovanissime, spesso ragazzine, in “campionesse-oggetto”.

Bisogna essere “femminili”

«Nel tentativo di attirare più fan e sponsor, la federazione ha decretato che, a partire da questa settimana, le giocatrici di alto livello devono indossare gonne e vestiti. L’obiettivo è che le donne “siano più belle in campo e abbiano più valore di marketing per se stesse” – afferma nel 2011 Paisan Rangsikitpho, vicepresidente della Badminton World Federation, parlando al New York Times – Pensiamo che lo sport meriti più spettatori, ma non si tratta di vendere sesso. Vogliamo solo che le giocatrici sembrino “femminili” in modo che siano più “popolari”». 

Uno dei fatti più eclatanti resta quello che si è verificato nel 2012, quando la Badminton World Federation ha cercato (fallendo) di costringere le giocatrici a indossare le gonne allo scopo di avere un aspetto piú piacevole – allo sguardo maschile, ovviamente. La Federazione internazionale di pallavolo, nel 2016, ha poi ammorbidito i suoi regolamenti per consentire alle giocatrici di indossare l’hijab nel tentativo di rendere lo sport più «accogliente ed inclusivo».

Le atlete di ginnastica artistica (ma probabilmente anche di altre discipline) usano uno spray collante per tenere attaccato il body alla pelle ed evitare che si sposti durante l’esercizio esponendole (penalità) o, una volta spostato il bordo del body, di aggiustarlo (altra penalità). Insomma, non solo atlete pagate meno degli uomini hanno a che fare con un abbigliamento sportivo mirato all’esposizione del loro corpo, ma sono anche penalizzate in gara nel caso di uno “spostamento inappropriato”. Le atlete tedesche alle Olimpiadi di Tokyo, d’altronde, si sono ribellate presentandosi con tute intere aderenti, dando, di fatto, nuova linfa vitale al dibattito.

Le donne che vengono giudicate in base alla loro femminilità percepita – o per meglio dire ciò che la società patriarcale intende sotto il termine “femminilità” –  piuttosto che al loro atletismo sono sintomo di un problema più grande.

Perché le donne devono fare le donne

Il principio secondo cui la donna “deve fare la donna” è evidente anche dal tipo di domande che vengono poste alle atlete da parte dei giornalisti, tanto che Assist – Associazione Nazionale Atlete ha pubblicamente chiesto su facebook ai giornalisti di smetterla di chiedere a Federica Pellegrini  “quando ti sposi” e “ a quando un figlio” puntando il dito contro una retorica che non contempla che la Pellegrini possa potenzialmente diventare presidente della FederNuoto. No, quello no; alla fine del percorso è più logico che la Pellegrini (e come lei altre atlete) ritornino al loro ruolo originario di moglie e madre

Questo atteggiamento rimanda la mente all’epoca fascista: il 16 ottobre 1930, i vertici del partito fascista stabilirono quanto segue: “Il Gran consiglio del Fascismo dà mandato al presidente del Comitato Olimpico Nazionale Italiano (CONI) di rivedere l’attività fisica femminile e fissarne, in accordo con le federazioni competenti e con la Federazione dei Medici Sportivi, il campo e i limiti di attività, fermo restando che deve essere evitato quanto possa distogliere la donna dalla sua missione naturale e fondamentale: la maternità”.

In quest’ottica la presa di posizione delle atlete risulta più che condivisibile, dato che la spettacolarizzazione del corpo della donna nello sport è un must di stampo economico, grazie anche a cameraman e regie di furbetti che riprendono fondoschiena che nemmeno fossimo sul set di Monella. Le atlete scelgono, quindi, di tutta risposta, di coprirsi anche per evitare penalizzazioni, preoccupazioni durante l’esecuzione dell’esercizio, imbarazzo e fotografie da gossip in cui non vogliono, comprensibilmente, essere ritratte. Questa presa di posizione, di fatto, esprime la necessità di stabilire un confine tra estetica e sessualizzazione del corpo delle donne

Qui di seguito Samin Kamal Beik (detta “Demon”), 31, lottatrice professionista di MMA, ha voluto condividere con Eco Internazionale la sua esperienza con una sua riflessione: