Discriminazioni e disparità: l’Italia non è un Paese per donne

Il 23 giugno la commissione Lavoro alla Camera ha approvato il ddl sulla parità salariale. Che impatto avrà la nuova legge sulle discriminazioni contro le donne?


«Oggi in commissione Lavoro segniamo un passo avanti fondamentale nella lotta contro il gender pay gap e contro le discriminazioni di genere sul posto di lavoro». Con queste parole la deputata PD Chiara Gribaudo ha annunciato l’approvazione all’unanimità del disegno di legge (di cui è relatrice) sulla parità salariale in commissione Lavoro della Camera lo scorso 23 giugno.

Il testo passa ora all’esame di Camera e Senato, e la sua entrata in vigore è prevista per il 2022. «Siamo a un passo dall’istituire un meccanismo di trasparenza e garanzia per milioni di donne lavoratrici che oggi vengono pagate meno e vengono escluse dalle opportunità di carriera rispetto ai loro colleghi uomini», ha continuato la deputata. 


La proposta di legge mira infatti a colmare il gender pay gap prevedendo l’obbligo per tutte le aziende con oltre 50 dipendenti di presentare una certificazione sulla parità e prevedendo quote di genere nei consigli di amministrazione anche delle società pubbliche non quotate. Sono inoltre previste agevolazioni per le aziende che  rispetteranno la parità.

Cosa si intende con gender pay gap

Il gender pay gap, secondo la definizione fornita da Eurostat, è la differenza tra i salari orari lordi medi di uomini e donne espressi in percentuale del salario maschile. La situazione retributiva delle donne è peggiore rispetto a quella maschile in molti Paesi. Infatti secondo il rapporto biennale Global Wage Report del 2018, fornito dall’Organizzazione Mondiale del Lavoro, la differenza salariale tra uomini e donne è del 20 per cento su scala mondiale.

Situazione in Italia

In Italia, le donne guadagnano in media il 20 per cento in meno rispetto ai loro colleghi uomini. Mentre nel settore pubblico l’uguaglianza è maggiormente rispettata, nel settore privato la situazione è tragica: il divario esistente raggiunge anche il 30,6 per cento. Il Global gender gap report inserisce l’Italia tra i peggiori Paesi in Europa.

Ma non solo. Secondo l’ong University Women of Europe (Uwe) e il Comitato europeo per i diritti sociali (Ecsr), nel nostro Paese vi è anche un grave problema di trasparenza sul gender pay gap, dunque i dati forniti sono considerati inaffidabili. Secondo l’Ecsr, infatti, le informazioni rese disponibili su questo tema si limitano a quelle contenute nel quadro legislativo.

Inoltre secondo l’Uwe «per capire realmente la differenza tra i salari è necessario modificare e definire gli indicatori e i dati utilizzati. Il governo non indica la metodologia seguita per calcolare il gap». L’ong accusa dunque il governo italiano di scegliere in modo del tutto arbitrario i parametri da utilizzare per stimare il divario salariale, invalidando di conseguenza il risultato finale.

Ma non solo gender pay gap. L’Italia non è un Paese per donne lavoratrici sotto molteplici aspetti. Anche le opportunità di carriera sono inferiori per le donne: in Italia solo un CEO su 10 è donna all’interno delle società quotate, nonostante le donne siano più istruite degli uomini. Secondo i dati Istat, nel 2020 le laureate sono state più dei laureati (il 22,4 per cento contro il 16,8 per cento). 

Questo dato cambia qualcosa? Assolutamente no. Solo il 56,1 per cento di loro infatti ha ottenuto un lavoro, contro il 76,6 per cento degli uomini. Le donne occupate in Italia rappresentano solo il 42 per cento della forza lavoro.

Numeri molto lontani da quelli registrati nel resto d’Europa (in Svezia, ad esempio, si registra l’81% di donne lavoratrici).  La presenza femminile inoltre diminuisce drasticamente ai “piani alti”. Più si sale di livello gerarchico meno donne ci sono. Il potere è ancora una prerogativa quasi esclusivamente maschile e il cosiddetto “soffitto di cristallo” è una realtà ben consolidata nel mondo del lavoro italiano.

Donna, lavoratrice e madre

La situazione precipita se la donna lavoratrice è anche madre. Se vuoi fare carriera devi rinunciare alla maternità e se vuoi essere madre devi rinunciare alla carriera. Non esiste scelta, non puoi decidere di essere madre e lavoratrice.

Ancora una volta questo viene confermato dalle statistiche. Le madri lavoratrici costituiscono solo il 6 per cento della popolazione italiana. Secondo i dati dell’Ispettorato del lavoro dal 2011 al 2017 in Italia 165.562 donne hanno lasciato il lavoro a causa della difficoltà di conciliare famiglia e carriera.Il numero è in continuo aumento.

Nel 2019 le neo mamme che hanno presentato le dimissioni sono state 37.611, l’anno precedente 35.963. Si tratta quasi sempre di dimissioni volontarie, ma quanta libertà c’è quando non si ha una valida alternativa? Mancano infatti per le madri tutele e servizi.

Le lavoratrici madri si trovano costrette a dividersi tra impegni lavorativi e impegni familiari, spesso senza poter contare sulla concessione del part-time o sulla modifica dei turni di lavoro. Quando il loro precario equilibrio si spezza a farne le spese è, quasi nella totalità dei casi, la carriera.

La famiglia o la carriera

Dopotutto è più semplice, più “dignitoso” fare la mamma che la lavoratrice. Il 51% degli italiani pensa che le donne debbano dedicarsi alla casa e ai figli. Lo stereotipo della “donna angelo del focolare” è ancora radicato nella nostra cultura. La donna è libera di lavorare, ma se si dedica alla vita domestica è meglio. Il 63,5% degli italiani riconosce che a volte può essere “necessario o opportuno” che una donna sacrifichi parte del suo tempo libero o della sua carriera per dedicarsi alla famiglia.

Secondo i dati dell’Ocse, in Italia le donne passano in media 306 minuti, circa cinque ore, in lavori non pagati come faccende domestiche, fare la spesa, pulire la casa e prendersi cura dei figli e della famiglia.

Gli uomini dedicano alle stesse attività solo 131 minuti, due ore circa, ossia la metà del tempo. Le aziende si allineano a questa tendenza culturale: se sei donna e vuoi fare carriera devi comportarti come un uomo e, di conseguenza, è meglio non avere figli. Anche in questo caso i dati parlano chiaro. Il 57 per cento dei dirigenti donne non hanno figli, contro il 25 per cento dei dirigenti maschi. Ancora una volta essere donna è un ostacolo, un impedimento, e la maternità è l’ennesimo fattore discriminante.

La scelta di avere figli in molti casi corrisponde per le donne italiane o a un’uscita o a una pesante penalizzazione sul mercato del lavoro. Il medesimo trattamento non è riservato agli uomini. La paternità non comporta alcuna limitazione. Anzi, il tasso di occupazione maschile risulta essere più alto tra i papà (88,5  per cento) piuttosto che tra gli uomini senza figli (83,6 per cento).

Sono le donne a pagare il prezzo più alto della pandemia

La pandemia ha ulteriormente peggiorato la situazione preesistente. Sono le donne le più colpite dalla crisi economica dovuta al Covid-19. Delle 444 mila persone che hanno perso il lavoro nell’ultimo anno, il 70% circa sono donne. 312 mila donne hanno perso o lasciato il proprio posto di lavoro. Tra novembre e dicembre 2020, di 101 mila neo disoccupati ben 99 mila erano donne.  

È stata soprattutto la mancanza improvvisa dell’assistenza all’infanzia a rivelarsi estremamente problematica: con i nidi e le scuole chiuse, l’impossibilità di usufruire dell’aiuto di nonni e di babysitter, le famiglie hanno dovuto farsi carico anche dell’istruzione dei figli. Quasi sempre il peso di tale impegno è gravato sulle spalle della donna, e questo anche a causa del gender pay gap: una donna guadagna in media meno del proprio compagno (mediamente il 22% in meno) ed è quindi economicamente più conveniente che a rinunciare al proprio impiego per badare alla famiglia sia proprio la donna.

La paura è che queste donne, una volta superata l’emergenza, non tornino mai più al lavoro e finiscano per essere relegate al solo ruolo di madre e moglie.