Origine del coronavirus, ritorna l’ipotesi del laboratorio

Il dibattito sull’origine del coronavirus si riaccende: per l’amministrazione Biden, l’ipotesi della fuga dal laboratorio cinese di Wuhan è diventata una possibilità da non escludere.


Se fino ad alcune settimane fa era considerata una teoria del complotto avallata soprattutto dalla vecchia amministrazione Trump, oggi è diventata “un’ipotesi da non escludere”. Stiamo parlando della teoria secondo cui il coronavirus, responsabile della pandemia da Covid-19 che più di un anno fa ha segnato irrimediabilmente le vite di tutti, sarebbe fuoriuscito dal laboratorio cinese di Wuhan. Mentre il consenso della comunità scientifica sull’origine naturale del virus sembrava pressoché unanime e definitivo, oggi le voci discordanti sembrano acquisire un’inedita diffusione.

Il quadro è cambiato a partire dal 23 maggio, quando è trapelato un report dell’intelligence americana in cui si afferma che tre ricercatori dell’istituto di virologia di Wuhan si sarebbero ammalati nel novembre del 2019, presentando una sintomatologia simile a quella da Covid-19. Un’informazione che cozza con la versione ufficiale del governo cinese, secondo cui il primo caso registrato di Covid risalirebbe all’8 dicembre dello stesso anno. 

La Cina smentisce, citando il report di febbraio dell’OMS in cui si afferma che l’origine naturale della pandemia (trasmessa dai pipistrelli all’uomo attraverso un altro animale) è un’ipotesi da “probabile a molto probabile”, mentre un incidente di laboratorio rimane “estremamente improbabile”. 

Le conclusioni del report rimangono tuttavia aperte. Già a febbraio Dominic Dwyer (uno dei membri della squadra inviata dall’OMS in Cina) denunciava in un’intervista a diversi media internazionali la mancata disponibilità da parte del governo cinese a consegnare tutti i dati sui primi pazienti. A fine marzo, dopo la pubblicazione delle conclusioni del report ufficiale, il direttore generale dell’OMS Ghebreyesus affermava la necessità di “ulteriori studi”, mentre il segretario di Stato americano Anthony Blinken si diceva “seriamente preoccupato sulla metodologia e sul processo” del lavoro di ricerca condotto dall’OMS.

L’anno scorso raccontavamo della “guerra dell’informazione” tra Cina e Stati Uniti, segnalando da un lato le opacità nella versione ufficiale del governo cinese e dall’altro la propaganda di Donald Trump, che parlava di “virus cinese” e “fuga dal laboratorio” citando prove che non ha mai offerto. Allora, come dicevamo nell’articolo citato, le prove non c’erano e la questione centrale era politica: Trump non doveva non solo contrapporsi alla Cina per ragioni economiche e geopolitiche ma voleva anche vincere le elezioni, mentre le sue difficoltà nella gestione della pandemia era sotto gli occhi di tutti.

A quei tempi, Anthony Fauci (l’ormai celebre immunologo e direttore del National Institute of Allergy and Infectious Diseases) smentiva categoricamente Trump, insieme a tutta la comunità scientifica. D’altronde, al netto delle opacità cinesi, non c’erano prove per dimostrare la tesi della fuga dal laboratorio, volontaria o involontaria. 

Se oggi lo stesso Fauci dichiara di non essere più convinto che il virus abbia un’origine naturale, evidentemente il quadro è cambiato. Il punto è capire come e perché.

Dal punto di vista strettamente scientifico, la situazione non è cambiata molto rispetto all’anno scorso. Come spiega Angelo Romano in questo articolo su Valigia Blu, se da un lato l’ipotesi dell’origine naturale del virus non è ancora dimostrabile al 100% – perché non è stato identificato con certezza l’ospite intermedio che ha permesso il salto di specie dal pipistrello all’uomo – dall’altro l’ipotesi che il virus sia stato geneticamente modificato in laboratorio non si può escludere al 100%. 

Anche diversi scienziati americani hanno sollevato dubbi sull’attendibilità del report dell’OMS, nel quale tra l’altro le pagine dedicate all’ipotesi della fuga dal laboratorio sono soltanto quattro su 313. Pochissimi sostengono invece apertamente quest’ultima tesi: Nicholas Wade (ex giornalista scientifico del New York Times) e Jamie Metzl (ex direttore del dipartimento di Stato ai tempi di Bill Clinton ed esperto di geopolitica).

Ed è proprio la geopolitica che può aiutare a comprendere in che modo la realtà sia cambiata rispetto all’anno scorso. Come abbiamo già raccontato, con l’ingresso di Biden alla Casa Bianca la rivalità tra Cina e Stati Uniti ha cambiato forma: da scontro unilaterale è già diventata una battaglia per l’egemonia, che coinvolge altri attori e altri piani. I rapporti tra UE e Cina stanno già cambiando, con l’Europa che si allontana dal dragone asiatico. E cambia anche l’immagine che gli Stati Uniti intendono dare di sé, come dimostra la presa di posizione dell’amministrazione Biden riguardo ai brevetti sui vaccini anti Covid.

In quel caso, l’amministrazione Biden ha mostrato che gli Stati Uniti sono disposti a cambiare atteggiamento rispetto alla proposta di India e Sudafrica al WTO (sostenuta da 100 paesi) di sospendere i brevetti su vaccini, know how e strumenti di diagnostica. Biden ha tentato una sintesi che – come era previsto – si è scontrata con il muro di Regno Unito, Giappone e Unione Europea.

Il presidente americano sa bene quali sono i limiti della sua apertura, nella cornice delle regole previste dal WTO e delle resistenze da parte delle multinazionali del farmaco. Tuttavia, il punto probabilmente era il gesto formale, non la sua efficacia: un’apertura al dialogo con i paesi del Sud, che esprimesse la volontà degli Stati Uniti di andare al di là degli interessi immediati dei singoli stati.

Lo stesso vale per la questione delle indagini sulle origini del coronavirus. Biden ha chiesto alle agenzie di intelligence americane di raddoppiare gli sforzi per indagare sulle origini della pandemia, per arrivare a una conclusione entro 90 giorni. Il presidente ha anche chiesto alla Cina “l’accesso a tutti i dati e le evidenze pertinenti”. 

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