Morire senza nome: l’infinita tragedia dei dispersi nel Mediterraneo

Ogni anno decine di migliaia di persone scelgono l’incertezza del mare alla certezza di una vita precaria. Molti di loro scompaiono senza che il mondo conservi traccia di chi sono stati prima di essere dei numeri su di un barcone.


Nel solo mese di maggio sono stati almeno sei i naufragi nel mar Mediterraneo. Dopo la tragedia dello scorso 22 aprile, in cui sono morte 130 persone, e dopo la quale l’Europa si era esposta gridando sconforto e indignazione, era cresciuta la speranza verso un cambiamento di rotta, invece no. 

Siamo ancora qui a cercare di asciugare le lacrime di madri, padri, figli, fratelli e sorelle che hanno visto i loro cari scomparire nella ricerca di una vita migliore.

Il Mediterraneo, culla di vita e civiltà, si trasforma nello Stige dei coraggiosi, di chi non si rassegna alla lotteria dell’esistenza, di chi cerca una via d’uscita, anche a costo della vita stessa.

I titoli dei giornali sono sempre gli stessi “Tragedia nel Mediterraneo”, “Migranti, morti nel Mediterraneo”, “Naufragio nel Mediterraneo”: l’evento si ripete con una frequenza che ci ha provocato un callo, le parole sono diventate vuote e al loro interno scompaiono i volti delle persone la cui morte viene lasciata tra le righe.

Desasparecidos. Uomini, donne, giovani e giovanissimi la cui sorte era racchiusa in una scelta di riscatto e ai quali da anni neghiamo un volto, un nome, una sepoltura. Nella gara al nascondino delle responsabilità, gli Stati dimenticano di essere composti da umani, e che la sofferenza non può essere cancellata, ma sicuramente memoria e rispetto aiutano e lenirle i sintomi.

Restituire il volto a chi è morto con l’unica colpa di avere un sogno è un nostro dovere e la storia di Jalila ha dato un’importante spinta in questa direzione. La costruzione di una memoria collettiva sul Mediterraneo, opposta e in aperto contrasto alla narrazione comune che nega i diritti dei migranti e delle loro storie dovrebbe porsi al centro delle discussioni sulla questione migratoria e non essere lasciata al caso o alla disperazione di una singola madre come nel caso di Jalila.

I suoi figli, Hedi e Mehdi di 24 e 22 anni, erano partiti con una piccola imbarcazione di fortuna da Biserta in Tunisia, per raggiungere l’Italia ma non ce l’hanno fatta. I loro corpi sono stati ripescati sulle coste tra Palermo e Messina nei primi mesi del 2020, i tatuaggi erano tutto ciò che di riconoscibile gli era rimasto e a Jalila sono bastati.

Ha lottato a lungo ed è riuscita ad arrivare a Palermo per recuperare i corpi dei suoi due ragazzi e riportarli a casa, dove hanno ricevuto un degno rito funebre e sono stati sotterrati dalla terra che li aveva visti nascere e vicini alle lacrime dei loro cari, che ne hanno potuto elaborare il lutto.

Con la forza che solo una donna piena di dolore sa sprigionare, Jalila ha lottato anche per i figli e i fratelli di altre donne tunisine. Durante il suo periodo in Sicilia ha cercato i volti e i nomi e cercato di ricostruire le storie e la memoria di più persone possibili.

La battaglia di questa madre ci deve fare riflettere sull’importanza di essere sottratti all’oblio di una morte senza nome, sul valore di continuare ad avere una storia da raccontare anche dopo la fine della vita.

I suoi figli hanno acceso un motore della giustizia, ma tenerlo in funzione è un dovere di tutti, soprattutto di chi, nella lotteria della vita, ha avuto la fortuna di nascere sull’altra sponda del Mediterraneo. Sostenere questa lotta e creare una memoria storica è l’unico modo per non rendere vane tutte le morti che il nostro mare sta copiosamente accogliendo.

Il naufragio non può essere il protagonista, dietro ogni strage ci sono nomi e cognomi, occhi e sorrisi, sogni e speranze che non meritano di essere date per scontate. Il Mediterraneo non può inghiottire intere esistenze, non da solo, non se facciamo qualcosa per impedirlo.