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Con l’elezione di Raisi, l’Iran svolta a destra

Con l’elezione del presidente Ebrahim Raisi, in Iran è avvenuta una svolta conservatrice che può cambiare il destino del Paese in un momento delicatissimo, tra sanzioni, collasso economico e crisi sanitaria.


L’Iran svolta a destra, proprio come si pensava, e ha un nuovo presidente: l’ultraconservatore capo della Corte Suprema Ebrahim Raisi, il quale ha vinto le elezioni con quasi 18 milioni di voti e il 62% delle preferenze, surclassando gli altri candidati. Al termine però di elezioni con la più bassa affluenza alle urne mai registrata, l’Iran si trova ancora una volta un membro del clero alla presidenza, che molti a Teheran ritengono possa essere in futuro il successore della Guida suprema, l’Āyatollāh Khamenei, in carica dal 1989. In Iran l’esecutivo è scelto dal presidente con approvazione legislativa, mentre la Guida suprema mantiene il controllo e il potere di veto sulle nomine di diversi ministeri.

A 82 anni, infatti, è all’ordine del giorno anche la questione della successione di Khamenei; un vuoto di potere ora sarebbe dannoso, in un momento così delicato tra crisi interna e sanzioni internazionali. In ogni caso, Raisi si deve scontrare con un importante dato da segnalare: non ha potuto contare sull’appoggio dell’elettorato più giovane, che ha disertato il voto. Secondo gli esperti, la teocrazia iraniana prende molto seriamente l’affluenza alle urne; questo dato quindi non è sicuramente passato inosservato. Oltre allo scarso consenso, Raisi è stato accusato da Amnesty International di essere coinvolto in esecuzioni di minori e torture di prigionieri politici: motivi per cui, nel 2019, gli Stati Uniti lo hanno sanzionato.

Eppure, l’esito della vittoria di Raisi era scontato, a causa del processo elettorale che non ha dato molte opzioni a quegli elettori che avrebbero preferito un riformismo più moderato. Per molti non si è trattato di una tornata elettorale vera e propria ma solo di un tentativo orchestrato per dare il potere a Raisi, stretto alleato dell’ayatollah Ali Khamenei, perché a seguito di tantissime esclusioni, solo sette uomini hanno potuto partecipare alla competizione, di cui solo un moderato. 

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Questa svolta conservatrice in Iran è destinata ad aprire un nuovo capitolo per il Paese, anche in relazione ai suoi rapporti con l’Occidente. Al di là dei quattro anni di mandato in palio, la svolta conservatrice potrebbe indirizzare la politica estera iraniana verso posizioni ancor più rigide nei confronti di Stati Uniti e Occidente, anche in relazione all’accordo sul nucleare. 

Raisi è chiamato a raccogliere il testimone dal presidente moderato Hassan Rouhani, il cui più grande risultato internazionale è stato compromesso proprio dopo il collasso dell’accordo sul nucleare del 2015. Tutto questo ha portato alla vittoria schiacciante dei conservatori e all’astensione record alle elezioni parlamentari del febbraio 2020. 

Le elezioni iraniane si sono svolte nel bel mezzo di una delle più dure crisi economiche del Paese, per l’elevata disoccupazione e i prezzi di beni e servizi praticamente decuplicati negli ultimi otto anni. Inoltre, la crisi è stata aggravata dagli effetti devastanti della pandemia di Covid-19. Con 3 milioni di casi e 82.000 morti, l’Iran è stato il Paese del Medio Oriente più colpito dalla pandemia. I medici, a causa delle sanzioni imposte a Teheran, hanno dovuto affrontare la pandemia contando solo sulle proprie forze. Raisi dovrà quindi affrontare più crisi contemporaneamente: le trattative con l’Occidente sul nucleare, la crisi economica e l’emergenza sanitaria.

Raisi e l’accordo sul nucleare

C’è stato un primo incontro a Vienna tra i delegati di Teheran e le potenze mondiali per salvare l’accordo sul nucleare, dopo la vittoria di Ebrahim Raisi alle elezioni in Iran. Secondo gli esperti l’accordo potrebbe essere vicino ma non ancora raggiunto. Ha parlato di “lavoro intenso” il viceministro degli Esteri iraniano, durante un’intervista alla tv iraniana a Vienna.

Le delegazioni sono poi tornate nelle loro capitali per le consultazioni in vista dell’auspicato ultimo round di negoziati, che però il neo presidente iraniano sembra per il momento non intenzionato a mandare avanti, avendo dichiarato di non volere nessun colloquio – per ora – con il Presidente Joe Biden. Raisi ha sottolineato la discontinuità con l’approccio diplomatico del suo predecessore Rouhani, mandando messaggi netti a Stati Uniti e all’Unione europea, giudicata “succube degli Usa” dagli iraniani. 

Secondo Raisi, l’America ha violato l’intesa del 2015 e gli europei non avrebbero mantenuto le loro promesse, poiché gli Stati Uniti avevano l’obbligo di rimuovere le sanzioni imposte a Teheran e non l’hanno mai fatto. Per tornare al tavolo dei negoziati, dunque, il neo presidente chiede di rispettare gli impegni, non solo a parole. 

Nel frattempo, l’Iran ha avviato nuovamente l’arricchimento delle proprie risorse di uranio, ormai ben al di sopra dei limiti stabiliti dall’accordo voluto da Barack Obama.

La crisi interna

Rispetto alla politica interna, queste sono le priorità di Raisi: lotta alla corruzione, maggiori aiuti alle fasce povere e rafforzamento della produzione industriale iraniana. Proprio la questione economica si rivelerà fondamentale nel prosieguo del suo mandato poiché occorrerà affrontare una crisi sociale sempre più profonda, che ha eroso il potere d’acquisto e portato la disoccupazione al 20%, con quattro milioni di nuovi poveri.

Nell’ultimo decennio, le sanzioni hanno fatto precipitare il riyal (la valuta iraniana) al minimo storico rispetto al dollaro statunitense. Con un’inflazione che sfiora il 39%, il neo presidente dovrà affrontare il compito di cercare di risolvere il più grande problema economico dell’Iran di oggi.

Considerando che le riserve vacillano, le sanzioni continuano e il problema della crisi economica sembra irrisolvibile, Raisi dovrà innanzitutto ripristinare la fiducia tra la sua stessa gente, prima di cercare di attirare investimenti e provare a salvare la sua economia al collasso.