Prigione di Guantánamo a un passo dalla chiusura?

A quasi vent’anni dalla sua apertura Biden promette lo smantellamento di uno dei simboli della “guerra al terrore”, il campo di prigionia di Guantánamo.


L’amministrazione Biden ha recentemente avviato la revisione formale della prigione militare di Guantanamo Bay. Si tratta del primo passo verso la sua definitiva chiusura.

Emily Horne, portavoce del Consiglio di sicurezza nazionale, ha infatti dichiarato a Reuters che il governo sta «intraprendendo un processo NSC (National Security Council) per valutare lo stato di avanzamento dei lavori che l’amministrazione Biden ha ereditato dalla precedente amministrazione, in linea con il nostro obiettivo più ampio di chiudere Guantánamo».

Ulteriore conferma è arrivata direttamente dalla Casa Bianca tramite la portavoce Jen Psak, la quale, nel corso del suo briefing quotidiano, ha ribadito la volontà della nuova amministrazione di smantellare uno dei simboli della “guerra globale al terrore” statunitense. Non si tratta del primo tentativo in tale direzione. Nel 2009 Obama, al suo secondo giorno di mandato presidenziale, ha emesso un ordine esecutivo volto alla chiusura di Guantánamo. L’obiettivo doveva essere raggiunto entro un anno, ma così non è stato

Il suo successore, Trump, ha invece firmato un ordine esecutivo opposto, volto a mantenere aperto il campo di detenzione. Ma non solo. Secondo un autore anonimo, descritto come “alto funzionario dell’amministrazione Trump”, l’ex presidente avrebbe proposto di identificare i migranti che entrano degli Stati Uniti illegalmente come “combattenti nemici” in modo da spedirli a Guantánamo Bay.

Adesso, in occasione del suo ventesimo anno di attività, la sua chiusura entra nuovamente a far parte dell’agenda politica della Casa Bianca.

Situata a Cuba, su un’area di 45 miglia, Guantánamo Bay viene concessa nel 1898, al termine della guerra Ispano-Americana, agli Stati Uniti e diviene una base militare americana permanente.  

La baia cubana viene scelta dall’allora presidente George W. Bush per ospitare un campo di detenzione per sospetti terroristi e militanti di Al Qaeda. Una scelta non casuale. Grazie alla sua ubicazione Guantánamo è al di fuori della giurisdizione degli Stati Uniti e di conseguenza non può essere sottoposta al suo controllo giudiziario. Le azioni compiute al suo interno sono disciplinate dalla “legge di guerra”, che permette l’indebolimento delle protezioni dettate dal diritto internazionale in materia di diritti umani.

La prigione di Guantánamo Bay viene concepita come un campo di detenzione speciale per i criminali più pericolosi, in particolare per coloro che hanno commesso crimini di guerra, e ha l’obiettivo di ottenere informazioni d’intelligence. In breve tempo essa si trasforma in un enorme paradosso: il luogo nato per imprigionare autori di crimini di guerra si trasforma in uno dei più atroci laboratori di violazione dei diritti umani del nostro tempo. 

I primi detenuti vengono trasferiti a Guantanamo l’11 gennaio 2002. Da allora la struttura ha ospitato 779 uomini. Di questi solo sette sono stati condannati; cinque di loro in seguito ad accordi preliminari in base ai quali si sono dichiarati colpevoli in cambio della possibilità di rilascio dal campo. Solo un detenuto ha ottenuto il trasferimento negli Stati Uniti per essere processato da un tribunale civile, mentre i restanti detenuti sono stati giudicati da una commissione militare e il procedimento non ha rispetto gli standard del processo equo. 

I detenuti imprigionati a Guantánamo infatti provengono principalmente da Afghanistan, Arabia Saudita, Yemen, Pakistan, Algeria e sono stati catturati nel corso di operazioni militari e di antiterrorismo avvenute al di fuori degli Stati Uniti. Frequentemente la cattura è avvenuta attraverso la cosiddetta extraordinary rendition ossia la “consegna straordinaria”. Si tratta di un’azione illegale di cattura e deportazione da uno Stato a un altro, eseguita nei confronti di un soggetto sospettato di essere un terrorista affinché sia detenuto o interrogato al di fuori di qualsiasi garanzia processuale e dunque anche attraverso l’utilizzo di tortura o di trattamenti crudeli, inumani o degradanti.

L’utilizzo di tale pratica è stato ammesso dallo stesso ex presidente Bush, il quale ha confermato che circa 100 prigionieri sono stati detenuti segretamente dalla CIA e che il governo americano ha identificato 16 di essi come “high value detainees” e in quanto tali, trasferiti nella prigione di Guantánamo.

Secondo un rapporto del Congresso degli Stati Uniti dal 2001 circa 14.000 persone potrebbero essere state vittime di extraordinary rendition e di detenzioni segrete. Secondo altri rapporti tale numero sarebbe sottostimato e le vittime sarebbero circa il doppio.

Nel settembre 2006 Bush ha anche ammesso l’esistenza di una rete segreta di “balck sites” gestiti dalla CIA e in cui i sospetti terroristi sono stati detenuti e sottoposti a “tecniche di interrogatorio avanzate”, terminologia che il Consiglio d’Europa ha descritto come “essenzialmente un eufenismo per qualche tipo di tortura”. 

E infatti a Guantánamo i detenuti, oltre alla detenzione arbitraria, hanno subito maltrattamenti e torture di vario genere per giorni, settimane, in alcuni casi anche per mesi. 

Oltre alla incontestabile gravità delle torture subite dai prigionieri, ciò che dovrebbe scandalizzare è il mandante di tali azioni. Non si tratta di abusi posti in essere da singoli soldati o agenti dei servizi segreti decisi a infrangere le regole. Non è stata l’opera di poche “mele marce” all’interno del sistema di sicurezza statunitense. Le torture inflitte all’interno di Guantánamo sono il risultato di precise decisioni di alti funzionari degli Stati Uniti, decisioni approvate dallo stesso presidente. Si tratta di tortura di Stato, tortura premeditata ed espressamente voluta dallo Stato.

Il sadico e crudele programma di “tecniche avanzate di interrogatorio” è stato infatti messo a punto da due ex psicologi dell’aeronautica militare statunitense, James Mitchell e Bruce Jessen, su incarico della CIA. L’American Psychological Association ha rinnegato l’opera dei due ex psicologi, affermando che essi abbiano “violato l’etica della loro professione” e abbiano “lasciato una macchia sulla disciplina della psicologia”. 

Dopo l’attentato alle Torri Gemelle la tortura viene giudicata da molti come “utile e necessaria” in quanto funzionale a ottenere infomazioni fondamentali per la sicurezza dello Stato. Ma l’utilità della tortura non esiste. Numerosi studi di criminologia e psicologia hanno infatti smentito la tesi della  tortura come strumento di indagine.

Sotto tortura si dice la prima cosa che salta in mente, si fa il primo nome che si ricordi, s’incolpa chiunque, ci si attribuisce reati mai commessi. E questo semplicemente per far cessare la paura e il dolore. Uno Stato democratico non può permettersi di utilizzare tali pratiche, a prescindere delle ragioni. Tra sicurezza e diritti l’ago della bilancia deve sempre essere la dignità umana. A Guantánamo questo principio è venuto meno.

Due prigionieri, Khalid Sheikh Mohammed e Abu Zubaydah, presunti affiliati di Al Qaeda, sono stati sottoposti alla pratica del waterboarding rispettivamente 183 e 83 volte. Lo stesso Abu Zubaydah, palestinese di origine saudita, lo scorso aprile ha presentato una denuncia alle Nazioni Unite contro gli Stati Uniti (e altri 6 Paesi ritenuti complici) per la sua detenzione arbitraria.

L’uomo, detenuto a Guantánamo da 19 anni, chiede un intervento urgente. Si tratta di uno degli ultimi 40 detenuti che ancora oggi si trovano rinchiusi all’interno del campo di detenzione.

L’uomo ha deciso di raccontare quelle torture attraverso degli schizzi pubblicati dal The New York Times. Nelle illustrazioni vengono ritratte le tecniche utilizzate dalla CIA nei suoi confronti. 

Riuscirà Biden a realizzare questo importante obiettivo prima della fine del suo mandato? Le sue probabilità di successo sono incerte a causa dell’opposizione di diversi repubblicani del Senato, i quali affermano che il rilascio dei prigionieri metterebbe tutt’ora in pericolo gli Stati Uniti. 

Dalla sua parte ha però i gruppi per i diritti umani e numerosi senatori. Quest’ultimi hanno inviato nei giorni scorsi una lettera nella quale chiedono al neo presidente di chiudere quel “simbolo di illegalità e violazioni dei diritti umani” che «ha danneggiato la reputazione dell’America, alimentato il fanatismo anti-musulmano e indebolito la capacità degli Stati Uniti di contrastare il terrorismo e lottare per i diritti umani e lo stato di diritto nel mondo». È giunto il momento di voltare pagina e dire addio alla politica del terrore


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