La mia casa, la nostra terra: la resistenza dei palestinesi

La Nakba del 1948 segnava il primo esodo dei palestinesi. Ancora oggi, un sistema repressivo distrugge vite e porta via case, dignità e futuro contro la gente dei territori occupati.


Torna a scorrere prepotente il sangue tra le strade di Gerusalemme, e di tutta la Cisgiordania occupata. La narrazione mediatica di queste ore è quella dell’ennesimo episodio di violenza esplosa all’improvviso, drammaticamente utile a riaccendere un conflitto dalle fiamme inesauribili

Mentre sono già 53, di cui 14 bambini, i palestinesi uccisi dalle bombe di Tel Aviv sganciate su Gaza, si è già smesso di parlare di diritti umani sistematicamente violati, di continui espropri e di colonizzazione abusiva delle terre, di manifestanti pacifici e di arresti arbitrari, di deportazioni e passaporti negati a chi è considerato residente temporaneo in casa propria, di occupazione militare e di repressione brutale contro un popolo vessato e umiliato che resiste.

O, forse, quella realtà atroce e complessa non si è mai voluto raccontarla per davvero. 

Da anni, le organizzazioni internazionali denunciano le innumerevoli violazioni dei diritti dei palestinesi nei territori occupati da Israele. Il rapporto A threshold crossed (Una soglia oltrepassata) di Human Rights Watch parla di crimini contro l’umanità e di apartheid, e la stessa accusa è mossa da B’Tselem, la più importante organizzazione per i diritti umani israeliana. Per crimini di guerra indaga, dallo scorso marzo, il Tribunale penale internazionale, accusato per questo di “puro antisemitismo” dal primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu a strumentalizzare un orrore per coprirne un altro.

Questa volta, a scatenare gli scontri degenerati nei massacri a cui stiamo assistendo, di una portata mai vista dopo le intifada degli anni ottanta e duemila, sono state le proteste contro quello che altro non è che un tentativo di “sfratto etnico” di alcune famiglie arabe del quartiere storico di Sheik Jarrah, nel territorio occupato di Gerusalemme Est, in favore dei coloni israeliani estremisti impegnati, con l’appoggio delle forze politiche e militari locali, a far quello che loro stessi chiamano “redimere la terra”. 

Il fatto è venduto come una mera questione immobiliare, una disputa legale da giocarsi tra i banchi delle corti israeliane – peraltro prive dell’autorità a insediare i civili israeliani nei territori occupati (fosse questa l’unica violazione della Convenzione di Ginevra sulla protezione dei civili in tempo di guerra che Israele si arroga il diritto di compiere quotidianamente nella totale impunità..) – su una manciata di case contese tra chi rivendica un presunto diritto di proprietà sulle terre su cui sorgono e chi, come profugo di guerra sul suo territorio, le abita da generazioni. Si tratta, piuttosto, di «un caso di pulizia etnica» nella “città contesa” per eccellenza. 

Ci si appella a leggi discriminatorie, come quella sulle “proprietà degli assenti” che riconosce ai soli cittadini israeliani il diritto di reclamare qualsiasi edificio sulla città di Gerusalemme se in possesso di un qualche titolo antecedente alla nascita dello Stato di Israele. E si giustificano così confische delle proprietà private e sgomberi forzati dei residenti palestinesi nella zona di Gerusalemme Est, diretti, di fatto, a facilitare il trasferimento degli israeliani su quello che – benché la città sia stata unilateralmente proclamata capitale dello Stato d’Israele – resta un territorio palestinese occupato.  

Azioni illegali che, avverte il portavoce dell’Ufficio delle Nazioni Unite per i diritti umani (Ohchr) Rupert Colville, «potrebbero costituire crimini di guerra». L’ennesimo sopruso per “il popolo della diaspora”, costretto a combattere, con al fianco soltanto i giovani progressisti israeliani, contro una potenza economica e militare che, in beffa a ogni obbligo internazionale e senza che nessuno gliene chieda mai reale conto, distrugge le vite, porta via le case, e con loro la dignità e il futuro a bambini, donne, e uomini, la cui colpa è quella di esistere e di voler vivere liberi.

«La politica di questo governo israeliano è il peggio del peggio. Non ha giustificazioni, è infame e senza pari. Vogliono cacciare i palestinesi da Gerusalemme Est, ci provano in tutti i modi e con ogni sorta di trucco, di arbitrio, di manipolazione della legge.

È una vessazione ininterrotta che ogni tanto fa esplodere la protesta dei palestinesi, che sono soverchiamente le vittime, perché poi muoiono loro, vengono massacrati loro», così si è espresso sul tema Moni Ovadia, l’artista e scrittore italiano di origini ebraiche che, bollando il sistema israeliano come «segregazionista, razzista, colonialista», tiene a definirsi «molto ebreo, ma per niente sionista».

Settimane di sit-in pacifici e di richieste di attenzione corse sui social con l’hashtag #SaveSheikJarrah, hanno tentato di mettere sotto gli occhi di tutto il mondo l’ultimo dei crimini di Israele, che da decenni ignora e disprezza ogni principio del diritto internazionale umanitario nel silenzio, o quasi, della comunità internazionale.

«Nessuno ha il diritto di prendersi casa mia». Poche parole, riprese in un video pubblicato lo scorso 3 maggio e da allora virale sul web, testimone di quelle che sono vere e proprie invasioni delle case palestinesi ad opera dei coloni israeliani, si sono fatte simbolo della resistenza di un popolo che non intende smettere di difendere il diritto di vivere nelle proprie case, di non essere cancellato del tutto.  

La reazione delle forze di occupazione, che «hanno agito in modo deplorevole, attaccando senza alcuna provocazione manifestanti pacifici che stavano reclamando i loro diritti e il rispetto del diritto internazionale» – come dichiarato da Saleh Higazi, vicedirettore di Amnesty International per il Medio Oriente e l’Africa del Nord – si è caratterizzata, come di consueto, per «il sistematico uso della forza, illegale e immotivato, contro le proteste per lo più pacifiche dei palestinesi». 

Una presa d’assalto dell’intera città, fatta di violenze, granate stordenti, e gas lacrimogeni contro una folla armata al massimo di pietre e bastoni; persino contro quella raccolta in preghiera nei luoghi di culto  – la moschea di Al-Asqa, alla porte di Damasco, è ormai l’immagine di una Città Santa in fiamme. Persino contro i bambini: l’Agenzia Onu per l’infanzia (Unicef) ne ha contati a decine di arrestati e di feriti alla testa e alla schiena, il più piccolo ha soltanto un anno.  

È iniziato così questo nuovo atto del dramma che da 73 anni consuma il Vicino Oriente: da case rubate e manifestazioni represse in un bagno di sangue, ammonite giusto con qualche blanda espressione di preoccupazione dalle potenze mondiali, estremamente parziali in questa lotta che è già in partenza contrassegnata da un significativo squilibrio di forze. 

Era il 15 maggio 1948 quando nasceva lo Stato di Israele, e per gli oltre 700 mila palestinesi cacciati dalle proprie abitazioni nei territori occupati iniziava quella “Nakba” – la ‘Catastrofe’ – che oggi ha il volto di intere generazioni di nati a Gaza sulla linea di fuoco, nei territori occupati senza diritti civili, o con lo status di rifugiati permanenti oltre il confine. Storia di gente che non ha più una terra sua, come fosse partorita senza identità né diritti. 

Da 73 anni, il popolo palestinese urla inascoltato. A conquistare le prime pagine dei giornali internazionali, però, sono la conta dei razzi lanciati (sempre inaccettabili e ingiustificabili), e quella ancor più crudele dei morti.

Una narrazione decontestualizzata, deformata, e sempre identica a se stessa: “un conflitto irrisolto tra due popoli”, ridotto ad un gioco delle parti come si trattasse di una guerra simmetrica e non della incessante azione di conquista perpetrata nello spregio della legalità internazionale e dei diritti umani di un popolo intero. 

Una racconto che non rende giustizia a nessuna delle vittime di questa tragedia. Non a quelle israeliane innocenti (7 fino ad oggi), la cui vita – sia chiaro – è da considerarsi sacra al pari di quella di chiunque altro sia coinvolto in tanto scempio. Non a quelle palestinesi, per cui persecuzioni, violenza e mortificazioni sono sottile, costante, ed esasperante realtà ogni giorno da troppo tempo, e a cui è l’ora che si riconosca lo stesso valore se si vuole iniziare a costruire quella pace stabile che sembra ancora maledettamente lontana. E lo rimarrà, se il mondo continuerà a osservare inerte.  


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