pio amedeo libertà di espressione

La libertà di espressione e il piagnisteo del «non si può dire più niente»

La libertà di espressione si è trasformata nella possibilità di imprimere pretenziosamente nel dibattito pubblico tutte le campane, anche quando queste sono razziste, misogine, omofobe o travestite da satira.


«Libera manifestazione del pensiero». C’è scritto così nella Carta costituzionale italiana. Ma non è tutto: è buona parte. È «la pietra angolare delle libertà democratiche» come l’ha definita la Consulta nel ‘69. La libertà di espressione – che contempla anche quella dei giornali, delle televisioni e del web – ha dei limiti che si sono  adattati nel corso della storia repubblicana. All’aumentare della consapevolezza delle diversità, è aumentato naturalmente il riconoscimento e la tutela delle stesse. Se accettiamo che “i tempi cambiano”, così come le persone, banalmente, riusciamo a comprendere le richieste che provengono dalla società. Ma ovviamente non è così semplice.

Se questa libertà è buona parte – come abbiamo detto – la parte restante è il «buon costume» che queste libertà portano con sé. Anche se sembra in disuso, e antiquato per certi aspetti, il buon costume, anche questo presente nella Costituzione, è riassumibile in “ciò che non è lesivo della dignità umana”. 

Dalla semplicità e dall’immediatezza di un concetto come «il cambiamento dei tempi», non si è salvato il senso stesso di “buon costume” che nei decenni si è radicalmente evoluto. Se una minigonna settant’anni fa poteva destare scandalo, oggi non può decisamente considerarsi malcostume. Lo stesso vale per una coppia omosessuale o per una donna che colleziona rapporti occasionali (anche se di sacche di “resistenza” ce ne sono, e molte).

Se è vero che il buon costume cambia (e solo un cieco non se ne accorgerebbe) è vero anche che cambia – o dovrebbe cambiare – il nostro modo di esprimere giudizi, in una parola, il nostro linguaggio. Quanto più complessa è la realtà sociale in cui viviamo, tanto più variopinto è il linguaggio con cui la descriviamo. Tutto il resto è solo pigrizia e conservatorismo.

Ribaltamenti acrobatici per non chiedere scusa

Negli ultimi anni, in Italia, abbiamo sentito spesso (ma non sempre) da esponenti della destra, inneggiamenti alla libertà di opinione, utilizzata all’occorrenza come ombrello dalle accuse di razzismo, omofobia, maschilismo e ogni altra nefandezza. Un conto è la chiacchierata con l’amico di bevute, un altro è il linguaggio pubblico.

Abbiamo sentito parlare di «dittatura del politicamente corretto» in quello che possiamo definire uno spettacolo paradossale “predetto” da tantissimi filosofi attraverso i millenni, da Platone a Karl Popper. Uno spettacolo in cui «la comunità si ubriaca di libertà confondendola per licenza» – come scriveva il filosofo greco in La Repubblica – e dove il “ribaltamento” è all’ordine del giorno. In questo circo alimentato da flussi d’odio (più scritti che orali) abbiamo ascoltato persino la difesa di poter dire negro o ricchione perché non se ne può più della «dittatura grammaticale» mettendo sul banco degli imputati la sola «intenzione» di offendere.

Domanda complessa, risposta brutale: un’affermazione come «non si può dire più niente» può nascondere o giustificare la pretesa di esercitare la propria libertà di espressione in una comunicazione pubblica che è incappata in un soggetto (o in un gruppo) che si è sentito offeso? Assolutamente no. Il motivo è presto detto e sta proprio in un ribaltamento, l’ennesimo: è intrinsecamente errato spostare la percezione e la valutazione dell’offesa da chi è stato offeso all’offensore. E se la scusante può essere rintracciata in una (malcelata) ignoranza, il difetto resta sempre dalla stessa parte: quella dell’offensore. 

È offensivo dare del negro, del ricchione o della puttana a qualcuno? Sì, e su questo non dovremmo avere dubbi. Soprattutto perché con un epiteto o con un altro si denigra una categoria in tutta evidenza discriminata storicamente e attualmente (i neri, gli omosessuali e le donne negli esempi specifici). D’altronde, è per questo motivo che si continuano a chiedere tutele particolari – anche queste protagoniste di ribaltamenti acrobatici tra «razzismi al contrario» e «sessismi all’opposto». Richieste che, in questo momento storico, sono più vive che mai.

Il problema, semmai, è l’opposto del “non poter dire più niente”: si dice troppo. Abbiamo ottenuto la possibilità di dire di tutto, in qualunque momento, da qualunque luogo in cui ci troviamo e con la possibilità che questo rimanga, nero su bianco. Il dramma odierno è la trasformazione della libertà di espressione nella condizione di imprimere pretenziosamente nel dibattito pubblico tutte le campane, anche quando queste sono razziste, misogine, omofobe o travestite da satira.

Inoltre, il fatto stesso che “non si può dire più niente” è falso, perché chi detiene il potere gode di grandi spazi di autonomia e senza contraddittorio, quest’ultimo invocato a giorni alterni, necessario però quando un artista (Fedez al Concertone del Primo maggio) si esprime sul palco in maniera politicamente sconveniente – riportando in auge la causa della libertà dell’arte.

Limiti “sempre nuovi” della libertà di espressione

Il limite della libertà di espressione in una comunità democratica – dicevamo – è il buon costume, ossia il rispetto della dignità umana. Quale sarebbe allora il buon costume contemporaneo? È il dilemma di chi vuole trovare le regole di libertà dentro le quali rintracciare i ruoli di “offensori” e “offesi”. Ciò che è tangibile, come per ogni fase della civiltà, è lo scollamento etico tra diversi strati della società: quelli che vivono il cambiamento (di fatto le generazioni Y e Z); quelli che lo stanno subendo e stanno cercando di interpretarlo – non senza commettere errori o peccare di ingenuità – e quelli che proprio non lo accettano. 

Rappresentazione plastica dello scollamento italiano è il mondo della Televisione a confronto con quello del Web, i due motori del dibattito pubblico, due ambiti che non dialogano e che (quasi) non vogliono incontrarsi. Il primo ancora in mano agli over 40 che, quando va bene, stanno cercando di interpretare nuovi linguaggi e nuove diversità; il secondo in mano agli under 30, protagonisti del domani e a rischio “polarizzazione” a causa delle cosiddette filter bubble (in sintesi, le “bolle” di interessi similari in cui restiamo intrappolati per mano degli algoritmi dei social network).

Intanto, però, continueremo a vedere adulti (o molto adulti) utilizzare un umorismo che suona “datato”, retoricamente sterile e probabilmente offensivo. Torneremo a commentare i vari casi Scotti-Hunziker con gli occhi a mandorla, Pio e Amedeo sulla difesa della parola “ricchione”, Amadeus sull’accusa facile di stalking, Luciana Littizzetto sulla satira moscia del “non si può dire più niente” e così via. Il perché? Esistono sempre due tensioni sociali, soprattutto in democrazia: quella del nuovo (buono) che avanza e quella che lo ignora, o peggio, lo reprime.

Nonostante si continui a dire che la Televisione sia «morta», questa continua a macinare ascolti pazzeschi, tentando di inseguire (e con più che discreti successi) una fascia giovane di utenti con un intrattenimento più “mirato”. Ma finché quello della Televisione (e non solo) resta un goffo tentativo di comprare i giovani, il “nuovo” che emerge non sarà soddisfatto, non sarà riconosciuto come parte attiva.

Quella della libertà di pensiero è una faccenda che si snoda attraverso nuovi linguaggi, nuovi media e soprattutto tanto dialogo intergenerazionale. Se il pensiero è cambiamento – per dirla come Freud – non serve rintanarsi nel vittimismo perché “non si può dire più niente”; serve pensare meglio e, magari, parlare meglio.


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