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Israele e Palestina, il tabù della parola “occupazione”

Il conflitto fra Israele e Palestina non avrà una “soluzione profonda” finché la parola “occupazione” rimarrà un tabù. Ne parliamo con Sulaiman Khatib, co-fondatore di Combatants For Peace.


Da giorni i media e politici italiani – e non solo – portano avanti una narrazione che incornicia il conflitto fra Israele e Palestina come una guerra fra due parti: Hamas contro Israele, islamisti contro ebrei, razzi contro raid aerei. Un racconto in cui è il primo, colpevole, ad attaccare e forzare la risposta, legittima, del secondo. Una narrativa che dimentica che Hamas non nasce dal nulla e nel nulla, e che accorda a Israele il lusso di non confrontarsi con il suo ruolo di potenza occupante e che – di fatto – cementifica lo status quo, genesi principale dei cicli di violenza che da oltre 70 anni si ripetono e che sono i civili a pagare. 

L’origine delle tensioni è sotto gli occhi di tutti e parlare di una “coesistenza interrotta” è fuorviante: non c’è “pace” per chi è un cittadino di serie B in Israele, vive il peso di un’occupazione militare decennale o è chiuso nella “prigione a cielo aperto” che è la Striscia di Gaza – dove i sistemi sanitario, economico e sociale sono al collasso da anni. Un concetto perfettamente sintetizzato ad Al Jazeera dall’analista Mairav Zonszein: «La coesistenza è sempre stata un’illusione – Israele ha una politica di discriminazione su tutti i fronti».

Questa narrazione dimentica la battaglia non-violenta di molti attivisti palestinesi e israeliani. Eco Internazionale ha parlato con Sulaiman Khatib, co-fondatore di Combatants For Peace, un’ONG di palestinesi e israeliani che hanno deposto le armi per scegliere la via della non-violenza – un’esperienza di cui lo stesso Kathib ha parlato in una recente pubblicazione dell’ONG.

«Come sappiamo» afferma Khatib «in genere i media mainstream, e specificatamente quelli che sposano la narrativa israeliana, si concentrano sulle tensioni e la guerra degli ultimi giorni – specialmente con Gaza, ma anche in Gerusalemme e altre aree – senza davvero andare alla radice delle cose, ignorando il fatto che il nostro popolo vive sotto occupazione da decenni».

«È importante che nel racconto entri la verità, che essenzialmente è: Israele è la forza occupante, che ha potere e controllo sui palestinesi, e sta ignorando i nostri diritti e la nostra esistenza» prosegue. «Generazioni di palestinesi hanno vissuto sotto il sistema razzista di occupazione israeliano in modo diverso, a seconda di dove vivono – in Gaza, Cisgiordania, Gerusalemme. Ignorare questa realtà significa prendere i fatti fuori dal loro contesto ed è importante che si vada alle radici del conflitto, dove i diritti dei palestinesi vengono negati dal sistema israeliano. Tutto questo è praticamente far perdurare il conflitto e mantenere lo status quo».

«Per poter fare passi avanti verso una qualsiasi riconciliazione fra le due parti dobbiamo riconoscere la dinamica nel suo complesso e chi è al potere. Ovviamente, chi nel sistema è a capo delle nostre vite non ci restituirà i nostri diritti, libertà e dignità senza che noi ci sforziamo perché questo cambiamento avvenga. Questa è la realtà. È importante collocare le cose nel loro contesto: è il primo passo per guarire la ferita e il trauma di quanto sta accadendo ora. Ora e per le generazioni che ci hanno preceduto».

Secondo Khatib, al momento ci sono due possibili modi per affrontare la situazione. «Un modo è la soluzione tipica, che in sostanza è tenere un certo tempo di calma, un accordo di cessate il fuoco, come di solito succede per un po’, e poi si torna allo stesso ciclo. Non è davvero una soluzione. La soluzione deve iniziare dal riconoscere i diritti dei palestinesi e abbiamo bisogno ci sia un cambio nella coscienza israeliana, nel sistema politico, che si crei una nuova narrativa che davvero include i diritti delle persone che vivono qui».

Il centro è toccare le radici del conflitto, riconoscendo il diritto dei palestinesi a vivere nel loro Paese natale, alla dignità, alla libertà e all’eguaglianza. «E da lì, le soluzioni pratiche… ce ne sono molte, non c’è ancora volontà di farle, il governo israeliano e il sistema non hanno desiderio di cedere privilegi, ed è lì che ci dobbiamo concentrare. La comunità internazionale deve riconoscere questa realtà e affrontarla. 

Noi di Combatants for Peace chiediamo alla comunità internazionale di prendere una posizione più forte e prendere le parti delle vittime di questo conflitto. E anche di incoraggiare, sostenere e legittimare lo sforzo nonviolento che noi palestinesi e israeliani di Combatants for Peace abbiamo scelto, poiché l’unica via di uscita da questo conflitto è trovare realmente un terreno comune per il beneficio di entrambe le parti, perché non credo che questa situazione sia buona per nessuna di esse».

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«Noi sosteniamo il confronto l’uno con l’altro: viviamo negli stessi spazi, non lontani l’uno dall’altro, ma con enormi differenze nei privilegi – questo deve essere riconosciuto dalla comunità internazionale. I rappresentanti a Gerusalemme, Tel Aviv, Ramallah, Gaza: loro possono vedere la realtà. Non vedo una soluzione, una profonda, con il continuare di questo circolo di tregue e conflitti. Succede in tutte le zone di Guerra, la storia deve insegnarci qualcosa qui. 

Per associazioni come la nostra che hanno scelto la lotta non-violenta, quello che accade ci dimostra che abbiamo scelto la giusta via – sappiamo che sarà una strada lunga, ma è importante non perdere di vista la speranza. Crediamo che le generazioni più giovani, e questa bella terra a cui apparteniamo, non tollereranno il razzismo, l’occupazione e l’apartheid».

Khatib e gli altri membri di Combatants for Peace non sono soli. Al bollettino giornaliero delle vittime e dei feriti, in costante crescita, si affiancano le manifestazioni di chi propone una via diversa. Lo scorso sabato, il portavoce dell’ong Gush Shalom (“Blocco della Pace”), Adam Keller, ha preso parte a una di esse, dove era presente il parlamentare arabo-israeliano Ayman Odeh, del partito comunista arabo Hadash. «Non si tratta di ebrei contro arabi – ha detto Odeh, racconta Keller a Eco Internazionale – si tratta di sostenitori dell’occupazione, oppressione e razzismo contro sostenitori della pace e dell’eguaglianza».

Dopo di lui, ha preso la parola Ibtisam Mara’ana, del Partito Laburista – che alle ultime elezioni si è presentato in una nuova veste, ridotta e più orientata a sinistra: «Stiamo cercando di costruire una struttura di pace e comprensione e un gruppo di uomini malvagi che reclamano guerra, spargimento di sangue, vendetta e odio, cercano di distruggere quello che costruiamo». Mara’ana, femminista araba, è sposata a un attivista ebreo-israeliano.

Mentre sale la macabra conta dei morti – a ieri almeno 212 in Palestina (di cui 61 bambini) e 12 in Israele – i palestinesi in Israele e Cisgiordania hanno scelto l’arma dello sciopero

In prima fila ci sono le nuove generazioni che – come racconta la scrittrice palestinese Mariam Barghouti a Middle East Eye – stanno facendo sentire la loro stessa voce e richiesta di cambiamento: «Questa è una generazione che non guarda a nessuna fazione, non guarda a nessuna leadership politica, ma a se stessa. Guardano alla loro stessa forza. Guardano al loro stesso coraggio e alla loro stessa audacia, perché davvero, realmente, è come se fossimo al nostro ultimo respiro. E l’unico modo di avanzare da qui è di essere così completamente noi stessi che l’unica opzione che avrà il mondo è accettarci».


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