Conflitto Israele-Palestina, perché l’UE deve intervenire

Sebbene la tregua di venerdì scorso tra Israele e Palestina salverà vite umane, per un cambio di rotta nel conflitto occorre una presa di posizione netta da parte dell’Unione Europea.


Le abitazioni nel quartiere Sheikh Jarrah, a Gerusalemme Est, sono parte del territorio occupato da Israele dopo la guerra del 1967 e sono state annesse tra il 1967-81. L’Assemblea generale delle Nazioni Unite già nel 1947 riconobbe la creazione di uno Stato ebraico su poco più del 54% del territorio e di uno Stato arabo su poco più del 42% del territorio. All’interno di Israele, esisteva una spaccatura interna. Da una parte, un’ala più pragmatica che sostanzialmente vedeva positivamente la divisione e i confini dettati dalle Nazioni Unite. Dall’altra, un’ala più dura che non avrebbe voluto la separazione. È una divisione importante da tenere a mente perché, purtroppo, è ancora viva. 

Il disegno di Israele era ben visto da buona parte della comunità internazionale, esclusa la Gran Bretagna che affermò che un accordo del genere non avrebbe accontentato nessuna delle parti. Sia gruppi ebraici israeliani che gruppi arabi palestinesi considerarono i risultati ottenuti nel corso dell’Assemblea delle Nazioni Unite poco rispettosi di quella che ciascuno di loro, ancora oggi, considera la storia delle loro terre. 

Tuttavia, l’espansione di Israele non si ferma al 1948; quella data segna solo la prima guerra arabo-israeliana, al termine della quale la striscia di Gaza risultava occupata dall’Egitto, la Cisgiordania occupata dalla Transgiordania e Israele annetteva la Galilea e i territori maggiormente popolati da arabi palestinesi. Il conflitto causò la prima vera ondata di profughi arabo-palestinesi (si documenta che siano stati oltre 700.000) costretti a lasciare le loro case.

La seconda guerra arabo-israeliana scoppiò nel 1956 in seguito alla nazionalizzazione del canale di Suez da parte del regime egiziano. L’Egitto, guidato dal leader Nasser decise, appoggiato dall’URSS, di nazionalizzare il canale chiudendolo alle navi commerciali di Israele. Un gesto che, in un contesto come quello della guerra fredda, vide gli Stati Uniti prendere le parti di Israele, evidentemente preoccupati dalle conseguenze economiche e geopolitiche che sarebbero potute accadere nel caso l’URSS avesse preso controllo di uno stretto commerciale strategico come quello di Suez. Le tensioni terminarono con un armistizio ma, ancora una volta, rimasero molto vive. 

Nel timore suscitato da movimenti militari ai propri confini di truppe egiziane, siriane e giordane, nel 1967 Israele sferrò un attacco preventivo. Un attacco che diede il via alla guerra dei sei giorni, terminata con una vittoria militare schiacciante israeliana che ridefinì ancora una volta i confini a suo favore, con la conquista di Gerusalemme Est, la Penisola del Sinai, le Alture del Golan, la Cisgiordania e la Striscia di Gaza. 

Fu dopo la guerra dei sei giorni che i confini “moderni” di Israele furono ridisegnati. Israele concesse pezzi dei territori conquistati a “governi” palestinesi – la Cisgiordania e la Striscia di Gaza – mantenendo però un controllo militare. Da lì ebbe inizio un processo di occupazione illegale che ancora oggi viene aspramente contestato.

Israele e Palestina: Netanyahu e Hamas

La notizia del cessate il fuoco intervenuto venerdì 20 maggio è senza dubbio positiva: salverà vite umane e rappresenterà una tregua alla violenza dopo giorni sanguinosi. Tuttavia, non si tratta di un cambio di rotta sostanziale.

Il primo punto riguarda Israele. L’instabilità politica degli ultimi anni continuerà e il conflitto con Gaza ha riaperto la strada a una quinta elezione in due anni. La divisione interna è molto più aspra di quanto potremmo pensare. Esistono due fazioni nella politica israeliana: una fazione laburista che considera la creazione dello stato di Israele come la realizzazione del principio  “prima il popolo e poi la terra” e una più dura, facente capo a Netanyahu, che vede la creazione di Israele come “prima la terra e poi il popolo”. Sono due visioni molto generiche ma che coincidono grosso modo con le divisioni interne alla politica israeliana sulla questione palestinese. 

Il secondo punto riguarda la Palestina e il conflitto tra Hamas e Abu Mazen, per alcuni versi simile a quello israeliano. Hamas non accetterebbe un compromesso sulle terre e vorrebbe, senza mezzi termini, la cancellazione di Israele dalla mappa geografica. Abu Mazen dall’altra parte è visto come un leader debole, capace di garantire la pace ma non i diritti dei palestinesi, poiché ha accettato troppo facilmente i termini dell’occupazione israeliana nei territori palestinesi prima del ‘67.

Il rapporto tra Europa e Israele: perché c’è l’obbligo di intervenire politicamente

Piaccia o no, l’Europa non è una parte equidistante nel conflitto tra Israele e Palestina per tre motivi. Anzitutto, la comunità ebraica è stata una comunità viva e partecipe della crescita dell’Europa. In secondo luogo, il lancinante rimorso dell’Olocausto è ancora vivo. In terzo luogo, l’Europa è partecipe diretta del conflitto come partner politico e commerciale di Israele. 

Per tutte queste ragioni Israele ha sempre goduto dell’appoggio dell’Occidente, che vedeva la possibilità di poter far affidamento su un Paese amico in un territorio culturalmente lontano dall’Europa. I palestinesi godono invece dell’appoggio dell’Iran e della Turchia: quest’ultima, sebbene fosse alleata di Israele nei decenni scorsi, si è progressivamente allontanata allo scopo di perseguire un’espansione pan-islamica in Medio Oriente. 

Israele è dunque un paese culturalmente più vicino all’Occidente ed è anche per questo che la responsabilità di vigilare sulla sua condotta è necessaria. Il rapporto di Human Rights Watch ha definito le condizioni dei palestinesi di Gaza, ai sensi dello Statuto di Roma del 2002, come condizioni di apartheid. A Gaza non ci sono né un porto né un aeroporto, mentre sono presenti controlli alle frontiere marittime e a quelle terrestri. Parliamo di uno dei territori più densamente popolati del pianeta, in cui l’80% della popolazione è dipendente da aiuti esteri. 

L’embargo di Israele sulla Striscia di Gaza ha causato una crisi umanitaria tra le più gravi del pianeta. Secondo la Banca Mondiale il tasso di disoccupazione generale è oltre il 53%, con picchi del 70% quando si parla di disoccupazione giovanile. Israele dosa la quantità di cibo che può entrare nel territorio, la quantità di energia e di materiali che possono entrare nel territorio. Inoltre l’avvicinamento consentito ai palestinesi è di 300 metri dalla frontiera: oltre quella soglia, l’esercito israeliano – che controlla i confini con mura e sistemi di sorveglianza – ha il permesso del suo governo di sparare. 

In breve, il trattamento riservato ai cittadini di Gaza si scontra con il rispetto dei diritti umani. Le condizioni sopra descritte dovrebbero allarmare l’Unione Europea, dato il suo attaccamento ai valori democratici e ai diritti umani, peraltro richiamato nei trattati comunitari (Art 2 del TEU). Il richiamo ai valori europei dovrebbe essere perciò fermo e fatto valere con specifiche sanzioni.

Tuttavia, l’Europa non è una parte equidistante dal punto di vista economico. Le armi di Israele vengono fornite massicciamente da Italia, Germania e Regno Unito. Questa posizione è discutibile non solo moralmente – viste le tragedie civili degli ultimi giorni – ma è anche irrispettosa della posizione comune europea sul commercio di armi, che sancisce il divieto di venderle a parti in conflitto. 

Insomma, se oggi Israele è la quarta potenza militare nel mondo e una potenza economica importante lo deve ai suoi investimenti, al suo focus sulla leva militare e – indubbiamente – ai massicci aiuti occidentali, nati proprio dalle strategie geopolitiche e dalla considerazione di Israele come parte integrante dell’Occidente.  

Se da un lato le posizioni di chi tifa per la cancellazione dello Stato di Israele dalla faccia della terra fanno il gioco degli estremisti, dall’altro lato è indispensabile un intervento politico occidentale e soprattutto europeo orientato verso sanzioni concrete su Israele. 

Occorre cambiare la narrazione dettata da una destra nazionalista e dalle sue leggi, che non rispecchiano minimamente i valori liberal-democratici europei. La Legge sullo stato-Nazione del 2018, che ha dichiarato ufficialmente Israele come “la casa nazionale del popolo ebraico”, è distante da quei valori, in quanto discriminatoria nei confronti di cittadini arabi di Israele – che rappresentano approssimativamente il 20 percento della popolazione – e delle altre minoranze. E perfino in contraddizione con gli stessi originari principi costituzionali israeliani. 

L’Europa, allora, rimase in silenzio. Oggi, di fronte a un nuovo assetto geopolitico post-pandemico, l’Unione Europea ha il dovere di prendere posizioni politiche nette contro il nazionalismo di Netanyahu. Lo deve fare proprio in virtù del legame storico di Israele con i valori e la cultura dell’Occidente e per salvaguardare quei principi democratici troppo spesso dimenticati che costituiscono la radice di una società europea ancora in costruzione.

Andrea Manzella


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