Rapporto Amnesty 2020/2021: i diritti umani nel mondo

Dall’ultimo Rapporto di Amnesty International emerge che la pandemia ha avuto un effetto devastante sulla vita di milioni di persone e aggravato abusi e disuguaglianze.


Dicembre è ancora lontano, e con esso anche il tempo dei bilanci conclusivi che ci permetterà di trarre le somme sull’anno di cui è trascorso solo il primo trimestre. Tuttavia, il momento potrebbe essere propizio per fare una panoramica su quale sia stato il percorso travagliato dei diritti umani nel mondo nell’arco del 2020 e in questi primi mesi del 2021.

Da circa quarant’anni, la sezione italiana di Amnesty International si occupa della traduzione, pubblicazione e divulgazione del rapporto sui diritti umani nel mondo: approfondimenti dettagliati su 149 Paesi, cinque panoramiche regionali (su Africa subsahariana, Americhe, Asia e Pacifico, Europa e Asia centrale, Medio Oriente e Nord Africa) e un’analisi globale consuntiva per comprendere quali siano stati gli sviluppi – o le involuzioni – per ciò che concerne il godimento dei diritti umani basilari.

Questo ultimo rapporto, è stato caratterizzato da una situazione quantomeno insolita che ha colpito indistintamente – ma non nella stessa misura né con la stessa intensità – tutti i Paesi oggetto di studio: il dilagare della pandemia da Covid-19. La situazione ha portato il dizionario dei diritti umani a espandersi, dovendo inserire tra le prime pagine del rapporto due nuove abbreviazioni mai viste nelle edizioni precedenti: COVID-19 – per indicare la malattia da coronavirus che ha fatto la sua comparsa nel 2019 – e PPE, acronimo per l’inglese personal protective equipment ovvero i dispositivi di protezione individuale, come guanti e mascherine.

Covid-19 e diritto alla salute

Da questi semplici accorgimenti, ci si può rendere conto di come il diritto alla salute sia stato uno di quelli messi maggiormente in crisi nell’anno appena trascorso. Per tutte e cinque le aree regionali analizzate, la pandemia da Covid-19 ha evidenziato ed esacerbato le lacune nella parità di accesso all’assistenza sanitaria e le divisioni sociali preesistenti. Nella regione dell’Asia-Pacifico la mancanza di forniture mediche ha spinto la classe media emergente ad assicurarsi medicinali o servizi sanitari nel cosiddetto “mercato nero”; altrove alti tassi di povertà e malattie croniche hanno portato a un aggravarsi dei sintomi delle persone contagiate dal virus. 

L’impatto della pandemia è stato devastante nei Paesi in cui l’accesso alla sanità risultava già limitato e iniquo. Le comunicazioni fornite dai governi centrali sono state poco chiare, contraddittorie e confuse come testimoniano le conseguenze vissute dai cittadini della regione delle Americhe. Minimo comune denominatore per le cinque aree sono state le proteste per il fallimento dei governi – in alcuni casi, solo in una prima fase – nel fornire sufficienti PPE e condizioni lavorative sicure che hanno permesso al virus di diffondersi. In Europa, poi, la pandemia ha ulteriormente evidenziato le mancanze e l’indebolimento dei sistemi sanitari – e di tracciamento – dovuti a carenza di risorse e fallimentari politiche di privatizzazione e austerity.

Disuguaglianza, discriminazione e pandemia

Il rapporto annuale di Amnesty International permette di interfacciarsi chiaramente con un dato che sta alla base dell’analisi proposta: chi ha subìto le conseguenze di politiche fortemente discriminatorie e divisive, che hanno promosso la disuguaglianza e l’oppressione nel corso degli anni, e i cui risultati sono esacerbati dalla diffusione della pandemia sono state – e sono tuttora – le classi già discriminate dalle suddette politiche ovvero le donne, i rifugiati, i migranti, le minoranze etniche, i poveri e, in generale, le categorie marginalizzate. 

I poveri, in base a differenti standard imposti come soglie di povertà nel mondo, sono diventati sempre più poveri. Non si fa riferimento solamente a un criterio monetario per sé, ma alla capacità di affrontare spese impreviste che possono occorrere nella vita di tutti i giorni, così come alla riduzione del potere d’acquisto e alla capacità di godere dei frutti del proprio lavoro: sia in termini di tempo libero – che in realtà non si ha nel momento in cui si rende necessario avere più impieghi anche nel contesto dell’economia informale – che di possibilità di usufruire di passatempi di varia natura, dai libri fino alle console di nuova generazione.

Inoltre, le politiche securitarie dettate dalla paura della pandemia dilagante, hanno portato all’inasprimento delle misure – in alcuni casi, in modo arbitrario – contro migranti e rifugiati, intrappolati in strutture di detenzione o impossibilitati a oltrepassare le frontiere. Questo ha portato non solo a gravi ripercussioni sulla salute fisica e mentale dei migranti, ma anche alla violazione del principio di non refoulement in 42 Paesi su 149.

Una delle misure più gettonate in periodo di lockdown, ovvero la fruizione della didattica a distanza (DAD), adottata nel contesto scolastico e universitario – senza che fosse garantito l’accesso a tecnologie adeguate – ha fortemente penalizzato gli studenti e le studentesse delle fasce più marginalizzate, acuendo il gap già dettato dalla pandemia. Il peso dell’istruzione a casa grava principalmente sulle donne, così come altri lavori di cura non retribuiti derivanti dall’interruzione dei servizi pubblici, come ad esempio l’assistenza a parenti malati. Queste condizioni si sono verificate perché, attualmente, le statistiche vedono ancora le donne – in percentuali molto alte – occupate nelle mansioni che non possono prescindere dalla sfera domestica o in ambiti lavorativi che non permettono loro di emanciparsi economicamente.

Conseguenze simili si sono riscontrate nel contesto di gruppi definiti minoritari, come gli afro-americani, i quali – già afflitti dal pay gap – difficilmente hanno avuto la possibilità di lavorare in modalità smart working, essendo impiegati principalmente in lavori manuali e risultando quindi più esposti al contagio.

L’impatto della pandemia sui diritti umani

Considerando quanto detto, sembra che la crisi da Covid-19 abbia esacerbato le conseguenze di anni e anni di politiche sbagliate che si sono premurate di difendere un certo status quo politico ed economico piuttosto che proteggere le categorie marginalizzate e discriminate, fornendo loro strumenti adeguati.

I poveri continuano a essere poveri e a non poter accedere alle cure adeguate, donne e membri della comunità LGBTQI+ sono oggetto di violenze verbali e fisiche e i governi competenti continuano ad addurre la lotta al coronavirus come pretesto per non potersi occupare di problematiche altre rispetto al contrasto della pandemia. Tuttavia, enormi passi indietro sono stati fatti proprio su questi versanti con il ritiro da parte della Turchia dalla Convenzione di Istanbul e la promulgazione di decreti legge senza scadenza in Ungheria che mettono un freno al godimento dei diritti della comunità LGBTQI+.

Vista la gestione fallimentare dei governi, la leadership deve risorgere dalle innumerevoli persone che chiedono un cambiamento, non da chi detiene il potere e gode di privilegi insensati, come afferma Agnès Callamard, Segretaria Generale di Amnesty International. Indubbiamente, sono state conseguite importanti vittorie nel corso del 2020, ma abbiamo visto il sorgere di diversi movimenti tra le schiere della popolazione civile transnazionale che si è fatta portavoce della necessità di cambiamento. Ora più che mai, diventa imprescindibile ricostruire le relazioni internazionali sul concetto di dignità intrinseca dell’essere umano.


Immagine in copertina di Richard Potts