mario draghi in libia

Mario Draghi in Libia, le incognite nel rilancio dell’Italia nel Mediterraneo

Dalla visita ufficiale di Mario Draghi in Libia è emerso un confronto aperto tra l’Italia e gli altri attori regionali presenti sul territorio, prima fra tutti la Turchia.


Prima visita ufficiale di Mario Draghi in Libia in veste di premier. Un viaggio lampo, durante il quale il presidente del Consiglio ha incontrato il premier Abdul Hamid Dbeibah, il primo ministro ad interim del governo di transizione nato pochi mesi fa grazie all’intervento dell’ONU. 

«E’ stato un incontro straordinariamente soddisfacente, caloroso e ricco di contenuti – ha detto il premier nel corso della conferenza stampa congiunta. «Abbiamo parlato della nostra collaborazione in campo progettuale con precisi riferimenti alle infrastrutture civili, in campo energetico, sanitario, culturale. Si vuole fare di questa partnership una guida per il futuro nel rispetto della piena sovranità libica. C’è la volontà di riportare l’interscambio economico e culturale ai livelli di 5-6 anni fa».

L’obiettivo che Draghi si riserva di raggiungere per l’Italia è chiaro: recuperare l’influenza del paese, proponendosi come interlocutore privilegiato in nome degli interessi europei, ma anche atlantisti, nella sponda sud del Mediterraneo. Dal canto suo anche il neo premier libico Dbeibah è consapevole che per traghettare il Paese fino alle elezioni del 24 dicembre ha bisogno di un sostegno dall’estero, rendendo prioritarie la crescita economica e l’attrazione degli investimenti esteri.

Tanti i punti di intervento per i quali l’Italia si candida a giocare un ruolo importante nella fase della ricostruzione in Libia, dalle infrastrutture locali al settore energetico. La costruzione dell’autostrada costiera di quasi 2mila km tra il confine egiziano e quello tunisino, chiamata “l’autostrada della pace”; la ristrutturazione dell’aeroporto Mitiga, che dovrebbe essere affidata al consorzio di aziende italiane Aeneas, attraverso il rilancio dell’aviazione civile libica e il ripristino dei collegamenti diretti con l’Italia e l’Europa; la cooperazione per l’ammodernamento del sistema ospedaliero; il sostegno delle aziende italiane per sopperire alla carenza di elettricità nel Paese che ha provocato numerosi black out. 

Altro importantissimo dossier sarà la definizione dell’accordo sulla transizione energetica e le realizzazione di nuovi impianti da fonti rinnovabili nel Fezzan, in cui il gruppo Eni – primo produttore di gas in Libia e principale fornitore di gas nel mercato interno – giocherà un ruolo centrale.

Un capitolo a parte merita la questione immigrazione. In conferenza stampa Draghi ha sottolineato la volontà di «fare di questa partnership una guida per il futuro nella piena sovranità della Libia. Anche in campo migratorio. Esprimiamo soddisfazione per quello che la Libia fa per i salvataggi. Nello stesso tempo aiutiamo e assistiamo la Libia. Il problema non è solo geopolitico, è anche umanitario». Da questo punto di vista «l’Italia è forse l’unico Paese che continua a tenere attivi i corridoi umanitari. Il problema dell’immigrazione per la Libia non nasce solo sulle coste libiche ma si sviluppa anche sui confini meridionali. L’UE è stata investita del compito di aiutare il governo libico anche in quella sede. I progetti sono stati molti. C’è un desiderio di cominciare».

Le parole di Mario Draghi in Libia hanno sollevato un coro di polemiche da parte di alcuni esponenti della stessa maggioranza di governo e delle ONG per la scelta di “esprimere soddisfazione” per come viene gestito il controllo del fenomeno migratorio dalla cosiddetta guardia costiera libica – che l’Italia finanzia lautamente. In effetti solo pochi giorni fa Medici senza frontiere ha denunciato la morte di una persona e il ferimento di due giovani nel sovraffollato centro di detenzione di Al Mabani a Tripoli, che ospita rifugiati e migranti. I feriti – due adolescenti di 17 e 18 anni, accompagnati in ospedale con ferite da arma da fuoco – sono stati curati dai medici di Msf.

Nella prima settimana di febbraio, sempre secondo Msf, il numero delle persone detenute ad Al Mabani è cresciuto da 300 a circa 1.500 persone, con poca luce naturale e poca areazione, cibo e acqua potabile insufficienti così come le strutture igieniche. In un solo metro quadrato, secondo Msf, sono ammassate fino a tre persone ed è impossibile persino riuscire a sdraiarsi. Scabbia e tubercolosi si sono rapidamente diffuse e il distanziamento fisico per sfuggire al Covid è inesistente.

Nel corso della conferenza stampa dello scorso 8 aprile Mario Draghi è tornato sulla recente visita in Libia e ha accennato anche ai corridoi umanitari. Per ciò che concerne l’iniziativa statale sarebbe più corretto parlare di evacuazioni umanitarie o di reinsediamenti e nel 2020, a fronte delle 700 persone previste dal piano europeo, ne sono state reinsediate solo 6. Numeri non proprio rilevanti, che riguardano le persone più vulnerabili e non la totalità del flusso di persone che cerca di raggiungere le coste europee. 

Numeri che però danno l’idea di come l’unica soluzione trovata dalla politica italiana sia stata delegare la gestione dei flussi a un Paese con una fortissima instabilità politica, dominato dalle milizie e non proprio attento ai diritti umani. Sono innumerevoli e supportate da dati reali le testimonianze, anche di agenzie delle Nazioni Unite, che parlano di morte, stupri, riduzione in schiavitù e violenze diffuse. Insomma non certo un porto sicuro. 

È di pochi giorni fa l’intervista di Francesca Mannocchi per L’Espresso a Federico Soda, il capo missione dell’organizzazione internazionale per le migrazioni (OIM), il quale spiega che i dati di coloro che vengono soccorsi in mare e intercettati dalla guardia costiera non combaciano con quelli delle persone presenti nei centri di detenzione. Ogni anno si perdono le tracce di migliaia di persone: alcune riescono a fuggire, altri rientrano attraverso i rimpatri volontari, altri ancora potrebbero essere finiti nelle mani dei gruppi armati, ma la differenza numerica resta enorme.

Al netto delle polemiche riguardanti l’immigrazione è chiaro che Draghi intende rimediare ai molteplici errori compiuti nella gestione della crisi libica in questi dieci anni di guerra civile. Il tutto con un riallineamento della Francia nel sostegno del nuovo esecutivo di Dbeibah, ma soprattutto con il benestare di Washington, che vorrebbe ridimensionare l’influenza di Putin in Libia. 

Dopo aver lasciato praterie all’intervento di Turchia e Russia, adesso il tentativo è quello di scalzare le due potenze dal territorio. Impresa non facile. È grazie all’intervento turco con uomini e armi a sostegno del governo di Al Sarraj, dopo che l’Europa aveva lasciato cadere le richieste di aiuto che arrivavano da Tripoli, se la capitale non è finita nelle mani del Generale Haftar. E alla stessa maniera, il generale ha fatto ricorso al sostegno militare di Egitto, Emirati Arabi e soprattutto della Russia. 

mario draghi in libia

Dal momento del cessate il fuoco, i miliziani di Haftar e i mercenari della Compagnia russa Wagner si sono ritirati al confine tra Tripolitania e Cirenaica, scavando una lunga trincea nel deserto che da Sirte arriva alla base aerea di Jufra, nel centro del Paese. Un chiaro segnale, che tanto quanto i turchi, i russi non hanno nessuna intenzione di ritirarsi dalla Libia.

È in quest’ottica di scontro sul terreno libico che possono leggersi le parole di Mario Draghi per quello che riguarda il cosiddetto “Sofa-gate”: martedì scorso, ad Ankara, la presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, è stata lasciata senza sedia in un incontro a tre con Erdogan e il presidente del Consiglio Europeo, Charles Michel. A tal proposito Draghi ha affermato: «Mi è dispiaciuto per l’umiliazione che Von der Leyen ha dovuto subire». Poi, la stoccata contro Erdogan, definito un dittatore.  

La Turchia non ha nessuna intenzione di cedere il passo in Libia all’Italia e all’Europa, tanto che sono ripresi gli incontri con il premier libico per rafforzare il partenariato nel settore dei servizi e il ritorno delle aziende turche per riprendere le attività interrotte a causa della guerra civile. L’intenzione è anche di discutere del controverso trattato sui confini marittimi nel Mediterraneo, in un’area estremamente contesa e sottoposta agli appetiti energetici di tutti gli attori del bacino, Eni inclusa.

In sintesi, Mario Draghi avrà un bel da fare nel farsi largo nella selva di interessi economici ed energetici che ruotano attorno a questa nuova fase in Libia nella quale nessuno dei principali player vuole farsi trovare impreparato. I diritti umani, al momento, non sembrano la principale priorità.