Arte, artistə e lavoro: una indagine sullo stato dell’arte

Continuano le nostre interviste a tu per tu con i protagonisti del settore dell’arte, confrontandoci con loro partendo dall’indagine del Sunday Times Singapore che ha messo in evidenza la “non essenzialità” del lavoro degli artisti. Oggi parliamo con Jekaterina Saveljeva.


Prosegue la serie di interviste per indagare all’interno del settore artistico-culturale, partendo dalla riflessione sull’utilità del mestiere dell’arte, riflessione giunta in Occidente grazie all’indagine del Sunday Times Singapore. In questa intervista leggeremo il parere di Jekaterina Saveljeva, che vanta un curriculum internazionale di alto livello in cui possiamo scorgere ruoli, come photo editor per Reuters, speaker per TEDx, fotografa per il New York Times, Vision Magazine, Fairplanet e The Irish Times

L’abbiamo giá incontrata in occasione di ”HER|visual|STORY” Festival lo scorso novembre. Originaria dell’Europa dell’Est, Jekaterina ha esperienza internazionale nel campo della produzione culturale di stampo visivo e ha deciso di dare vita al progetto internazionale femLENS, che mira a dare voce alle comunità attraverso la fotografia documentaria, fornendo educazione visiva e tecnologica alle donne – specialmente a quelle piú vulnerabili – in modo da potersi rappresentare da sole combattendo, di fatto, la stereotipizzazione della figura femminile nella cultura contemporanea (potete supportare questo progetto tramite una piccola donazione).

arte Jekaterina Saveljeva
Sulla sinistra Jekaterina Saveljeva

Immagino tu sia a conoscenza del dibattito sull’articolo del Sunday Times Singapore che ha reso pubblica l’indagine sulla non essenzialità del lavoro degli artisti. Come ti ha fatto sentire? In che modo questo clima influisce sul tuo lavoro, se influisce? «A dire il vero, per me, i dati emersi possono essere letti da più punti di vista. Intanto, l’indagine è stata condotta in un Paese asiatico; mi piacerebbe vedere la stessa indagine realizzata in diverse parti d’Europa, Africa, Paesi arabi, Sud America e quindi confrontare i risultati. Stando agli stereotipi per cui i giapponesi sono rappresentati come persone motivate e laboriose, e sulla base di alcuni studi sugli americani asiatici [secondo un articolo del New York Times, infatti, “I dati del censimento mostrano che gli americani di origine asiatica guadagnano più di altri gruppi, compresi i bianchi. Anche gli asiatici americani hanno un livello di istruzione superiore rispetto a qualsiasi altro gruppo” ndr], sappiamo che gli asiatici sono guidati dai risultati, sono più attenti alla comunità, piuttosto che alla propria realizzazione personale rispetto ai Paesi occidentali. Questo non vuol dire che gli asiatici non apprezzino l’arte, penso il contrario piuttosto, il che mi porta a esprimere il mio secondo punto. 

Cosa è successo all’arte e agli artisti? Come hanno recepito la domanda le persone che hanno partecipato all’indagine, o cosa hanno pensato quando hanno letto “l’arte come lavoro”? Si stanno, forse, rivolgendo alle personalità sproporzionatamente boriose di quei pochi “artisti” con cui la maggior parte delle persone non riesce a relazionarsi? Stanno pensando alla produzione della serie Netflix come a un’opera d’arte? Per quale motivo pensavano che l’arte fosse peggio dei telemarketing? Sembra che il mondo dell’arte abbia qualche riflessione da fare.

Penso che non sia l’opinione pubblica a influenzare il mio lavoro, ma l’industria artistica stessa, nello stato attuale in cui si trova. Niente di ciò che faccio deve essere istituzionalizzato, riconosciuto dalle “persone giuste”, mercificato. È a causa del modo in cui viene attribuito valore finanziario agli artisti, i quali possono riempire un museo e solleticano il cervello della giusta categoria di persone, che finanziare il nostro lavoro diventa una lotta. Ma se guardiamo al coinvolgimento e al feedback che riceviamo da un tipo sbagliato di persone (cioè dalla maggior parte delle persone) penso che attraverso il nostro lavoro riusciamo a riabilitare l’arte e la cultura in qualche modo. Almeno spero che sia quello che sta succedendo».

Data la tua esperienza nel campo della fotografia e della produzione culturale, puoi darci la tua visione dell’industria creativa e culturale contemporanea? «Dunque, c’erano luoghi speciali, come Berlino cinque o dieci anni fa, dove la creatività esisteva a tutti i livelli, dalla strada, ai collettivi, alle istituzioni più grandi. Vi era una situazione storica molto particolare che ha contribuito a condizioni abitative a prezzi accessibili e opportunità finanziarie che non hanno così costretto la gente a svendersi solo per sbarcare il lunario. C’erano molto tempo e risorse rimanenti per creare, produrre, sperimentare; ci sono molte domande su quanto fosse preziosa tutta quella produzione per la società intera, dato che dopo un periodo di 20 anni la società stessa si presenta generalmente peggiore di prima. Ma almeno, a differenza della produzione capitalistica, in cui le persone sono costrette a lavorare in condizioni terribili nelle fabbriche che sfruttano, la maggior parte dei partecipanti alla produzione culturale di Berlino si è divertita molto. 

Berlino non è più quella di una volta, l’abbiamo persa. Sta diventando un luogo spietato come la maggior parte degli altri luoghi. Dalla mia personale esperienza, posso anche dire che alcune delle persone ai vertici dell’industria culturale pensano di essere molto politiche, forse persino ribelli. Parlano con i governanti, presentano il loro lavoro in palazzi e feste fantasiose e lo vendono a persone estremamente benestanti. Il pubblico è in soggezione (se ha il privilegio di assistere). Eppure, se cammini per i sobborghi di Berlino, o Dublino, o alcune delle parti più marginali d’Europa, niente di ciò che fanno queste persone è visibile. 

Centinaia di migliaia di euro vengono spesi per qualcosa che solo una manciata di persone potrà vedere. Mentre la vera classe politica – i lavoratori nei sobborghi, nelle città produttrici di energia, nelle regioni produttrici di cibo – non vedrà mai questo lavoro di matrice politica stravagante, non sarà appeso nella loro fabbrica poiché questi articoli di lusso sono destinati agli uffici dei banchieri e ai CEO delle aziende o ad altri membri delle classe dominante. 

Perché i bilanci culturali nazionali, europei e aziendali vengono spesi in questo modo? Non è che penso che questo tipo di lavoro alla Biennale debba essere visto da tutti per forza, ma forse gli artisti che si pensano “politici” apprezzerebbero avere il palcoscenico di una piccola città che rifletta il vero significato del proprio lavoro.

Vorrei dire di più: perché, di base, i budget non vengono dati ai produttori culturali locali? Sappiamo che esistono. Il concorso per una borsa di studio di 5 mila euro può essere aperto a non più di 200 persone, con una domanda di oltre cinque pagine. Artisti famosi (pensate a uno che avete visto in un grande museo o alla Biennale di Venezia) hanno delle squadre: due persone, dieci persone, 75 persone, che sono tutti professionisti nel loro ruolo di supporto! Mentre le possibilità di un artista locale di ottenere quei 5 mille euro sono quasi nulle, soprattutto se non si proviene da una grande città in cui questo tipo di competizione ha informato le persone su come compilare quelle domande con le parole chiave “giuste”. 

Quindi la mia visione? Penso che culturalmente siamo tutti più poveri che mai. Chi può permettersi di consumare cultura la consuma, gran parte di essa è cibo spazzatura raffinato. E ci sono molti modi per fruire della produzione di un artista, dalle mostre nei musei alle scarpe da ginnastica con il design di un artista, a ciò che alcuni pensano che Netflix e Spotify forniscano (non entrerò nel merito in ciò che Spotify o Netflix forniscono davvero, ma non è cultura, e la lotta per la loro riforma è utile quanto presentare un’opera d’arte a Davos). E ci sono quelli che creano nonostante e a dispetto delle condizioni. Queste sono le esperienze più uniche e memorabili».

La politica e l’arte sono quindi molto legate tra loro, non solo per i finanziamenti. Nonostante la grande maggioranza degli studenti d’arte siano donne, le donne rappresentate nelle gallerie e in altre istituzioni sono una minoranza. Puoi darci la tua opinione? «Non voglio essere accusata di generalizzazioni o di dipingere le donne che sono riuscite a farcela nell’industria artistica e fotografica come se ci fosse qualcosa che non va in loro, ma nella mia esperienza gran parte dell’industria culturale è un club per uomini, e sopravvivere lì richiede l’adattamento ad alcuni tratti comportamentali tipicamente maschili, anche se solo nelle loro cerchie. Condurre una doppia vita non è una cosa facile per nessuno. 

Al di fuori del settore principale, ci sono molti progetti, ma non pagano, e rendono difficile la sopravvivenza. Per esempio, anche se una donna dovesse svolgere un altro lavoro per supportare il proprio processo creativo, guadagnerà comunque in media il 20 per cento in meno di un uomo nella maggior parte dei settori in tutto il mondo e avrà comunque meno tempo e risorse (e talvolta spazio) per contribuire alla sua pratica creativa. Quindi, aggiungi il lavoro riproduttivo che richiede un’altra fetta importante del suo tempo ed energia, oltre al lavoro di supporto e, beh, penso che tu abbia una risposta alla tua domanda.

La realtà in cui viviamo è più sfumata di cosí, ma per quanto miope possa essere la nostra società, penso che la maggior parte delle persone lo abbia avuto modo di osservare tali dinamiche».

donne diritti arte

In Italia è stato detto pubblicamente “con l’arte non si mangia”; essere un artista non è considerato un lavoro vero e proprio e il sindacato degli artisti è quasi assente, tranne in rari casi che coinvolgono attori e altri artisti dello spettacolo. Posso chiederti di commentare questo? C’è una percezione diversa altrove, nei Paesi con cui hai lavorato? «Penso che questa sia una questione molto politica che riguarda la domanda precedente. Perché l’arte è importante per la società? E qual è il diritto di un individuo? E ancora, è arte qualsiasi cosa venga definita tale? È un poco come con il femminismo, per cui secondo Bell Hooks “Alcune persone sono più femministe di altre. Se il femminismo si riferisce ad ogni cosa per tutte le persone, allora che cos’è? Come lo collochiamo come un movimento politico radicale nelle nostre vite se tutti lo fanno… il che non significa che dobbiamo demonizzare, ma dobbiamo essere chiari sui confini, qual è la linea che oltrepassa quella si può infatti dire sono una femminista? I miei studenti diranno beh, io sono contro l’aborto ma sono femminista, e dirò questo è impossibile perché puoi dire – non sceglierei mai di abortire perché non lo ritengo giusto nei confronti di me stessa – ma non c’è nessuno che sia veramente femminista che non sostenga i diritti riproduttivi per le donne. È così difficile per noi, viviamo in questo mondo binario che dice sempre scegli una cosa o l’altra, non cerco di convincere qualcuno a sposare il mio modo di concepire l’aborto, ma sento che parte dell’essenza del femminismo è quella per cui le donne hanno il controllo sul corpo delle donne, che le donne hanno i diritti riproduttivi – tutte le donne! – Quindi non puoi portarglielo via e poi vantarti di quanto sei femminista”.

In che modo è rilevante? Ebbene, se non siamo in grado di stabilire qual è la vera essenza dell’arte e il valore dell’arte per una società, allora come puoi difenderla? Se si tratta di un’esperienza personale puramente non riflessiva, perché dovrebbe importare a qualcuno? A meno che qualcun altro non abbia speso migliaia di euro per pubblicizzare una simile visione delle cose, in modo tale che all’improvviso la gente se ne preoccupi. Dove troveremo solidarietà all’interno della società e la fiducia in noi stessi se ci manca la comprensione politica e tendiamo a difendere gli stessi diritti individuali che contribuiscono al crollo delle nostre società?

E poi ci sono i mass media: manipolazione, Bernays, Zuckerberg, influencer e star di YouTube, mancanza di vera innovazione sotto il capitalismo. Manipola, distrae, cementa l’idea di un “idolo”, dell’individualitá, di questa idea che non importa davvero per cosa sei famoso, finché sei famoso. Questi sono i “valori” moderni, indotti. Gli individui nel mondo dell’arte beneficiano di questo stato di cose. Ma in realtà, tutti i milioni di follower sono tra i più poveri al mondo.

L’architettura sta diventando sempre più oltraggiosa, ma molte persone vivono ancora in condizioni miserabili, gli artisti escogitano pezzi concettuali sempre più elaborati, mentre le persone non riescono ancora a capire come fermare il declino dell’industria nelle loro città, soffrono della mancanza di lavoro, della totale dissociazione da tutto ciò che consumano. I centri urbani non sono il centro del nostro mondo. È ovunque ciò che conta.

L’arte non dovrebbe essere puramente utilitaristica. Non sto dicendo che non dovrebbero esserci esperimenti creativi, pura espressione, astratta o no, del nostro mondo. Ma se dovessimo cercare di individuare “l’arte per l’arte” non sarebbe nelle gallerie di New York, Parigi, Londra, Venezia. Quei posti sono troppo redditizi, quindi per me l’arte è un’arma, che gli stessi creatori siano in grado di ammetterlo a se stessi o meno. L’arte per l’arte può essere trovata in quelle città industriali morenti dove i poeti lavorano come elettricisti o sono disoccupati perché le loro centrali elettriche vengono chiuse, i pittori vendono il loro lavoro per una birra al loro locale, i postini creano elaborati castelli con conchiglie.

Gli artisti possono davvero essere apolitici e mantenere la loro integrità mentre si prendono fama e denaro? E con coloro che vogliono riformare le istituzioni che impediscono un vero cambiamento sociale (il vero cambiamento sarebbe migliori condizioni di lavoro, migliore istruzione, migliore livello di sanità, strade più sicure attraverso la prevenzione della povertà, industrie etiche, ecc.) vendendo una versione della società che dà valore all’individualismo, al consumismo e all’apoliticità, com’è possibile la riforma? Vedo piuttosto che il destino di queste istituzioni è quello di trasformarsi in Teufelsberg, una collina artificiale di Berlino, creata con le macerie della Seconda guerra mondiale. Forse allora potremo sperimentare più arte e più cultura».


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