Rania, Medhi, Sami, Mondher e i (1.650) volti della repressione in Tunisia

In Tunisia, la lunga ondata di proteste è ancora oggi segnata dalla forte repressione da parte delle autorità tunisine.


A dieci anni dalla rivoluzione che ha portato alla caduta del regime di Ben Ali il 14 gennaio 2011, lo scorso gennaio in tutta la Tunisia è iniziata una nuova ondata di proteste. Tra le principali rivendicazioni si chiede la caduta dell’attuale governo, l’accesso al lavoro, giustizia socioeconomica, una più equa redistribuzione della ricchezza e tutele nei confronti degli abusi della polizia.

Sulla scia dei movimenti sociali, una campagna di arresti arbitrari ha severamente colpito molti tunisini/e e attivisti/e, nel vortice delle ingiustizie del sistema penale che, laddove riformato, pecca ancora nell’essere applicato.

Rania Amdouni e arresti arbitrari

Giovedì 4 marzo è arrivata la condanna a sei mesi di carcere per Rania Amdouni, attivista tunisina per i diritti LGBTIQ, con l’accusa di “attentato al pudore” e per aver insultato la polizia.

26 anni, membro di Damj, Associazione tunisina per la giustizia e l’uguaglianza, militante e volto delle recenti proteste in Tunisia, Rania Amdouni si era recata in un dipartimento di polizia per denunciare le molestie subite da alcuni agenti di polizia per strada e online. Da gennaio, era infatti diventata parte visibile delle proteste nella capitale che chiedevano giustizia sociale e condannavano le violenze della polizia a Tunisi e questo l’aveva sottoposta alla gogna mediatica con molestie, bullismo e minacce di violenza. 

E lì, la vittima si è presto trasformata in carnefice. Rania Amdouni è stata arrestata e poi condannata a sei mesi di carcere.

Gli agenti, che hanno rifiutato di registrare la sua denuncia per molestie, l’hanno allora accusata di aver insultato la polizia a seguito di esternazioni di rabbia contro il sistema di polizia tunisino. Alla base della sua condanna vi sono infatti presunte dichiarazioni secondo cui Rania Amdouni abbia “offeso l’onore della polizia” gridando e imprecando fuori dalla stazione.

Rania Amdouni, che rivendica con determinazione la sua espressione di genere e il suo orientamento sessuale, ha pagato il prezzo del coraggio e della lotta. La risposta delle autorità tunisine lancia un messaggio chiaro alla comunità LGBTIQ: nessuna tutela e assistenza per le vittime di discriminazioni, che anzi rischiano di essere esse stesse criminalizzate.

Il caso di Rania Amdouni, come quello di centinaia di attivisti, conferma che in Tunisia la libertà di espressione e le tutele sulle libertà individuali sono gravemente in pericolo. Una repressione paralizzante il cui obiettivo è di mettere a tacere i/le manifestanti.

Le recenti proteste divampate in tutto il Paese hanno portato all’arresto di circa 1.650 manifestanti, di cui circa 300 minorenni. Decine di arrestati hanno denunciato maltrattamenti e torture.

Medhi Barhoumi, Sami Hmaied e Mondher Souidi sono altri tre attivisti tunisini recentemente arrestati dalla polizia che ha fatto una incursione in una abitazione privata durante la notte di sabato scorso.

Accusati di aver aggredito un agente in sosta davanti un’ambasciata, lanciandogli una bottiglia dal balcone, sono stati trattenuti per 48h prima del loro rilascio. Altri due attivisti sono stati arrestati a Beja dopo aver partecipato a una manifestazione con una bandiera antifascista. L’arbitrarietà poliziesca è accompagnata da una totale impunità delle violazioni.

I metodi della repressione

La lunga ondata di proteste, non ancora conclusasi, è stata segnata dalla forte repressione da parte delle autorità tunisine. La strategia di repressione utilizzata è stata particolarmente abile. Poiché la presenza dei media e della stampa locale e internazionale rendevano le manifestazioni e i manifestanti “intoccabili”, la polizia ha adoperato una repressione a-posteriori: pacifici durante la manifestazioni e repressivi nei giorni a seguire. Come? Durante le manifestazioni decine di poliziotti in borghese giravano tra i manifestanti con fotocamere e telefoni cercando di riprendere e successivamente identificare quanti più manifestanti possibili.

Altra strategia utilizzata è stata attraverso i droni e il dispiegamento delle forze di sicurezza che, come cecchini, si sono appostati nei terrazzi che riversano in Avenue Bourguiba, cuore nevralgico della capitale, per identificare i manifestanti. L’identificazione è stata spesso seguita da intercettazioni telefoniche, chiamate intimidatorie, minacce o prelevamenti a sorpresa.

Rania, Medhi, Sami, Mondher non sono solo nomi, sono corpi e libertà violate nell’assenza globale di un quadro legale che li protegga, in un sistema che criminalizza evidentemente il dissenso, la diversità e la libera espressione.


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