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Ventun’anni di Putin, l’evoluzione della politica estera russa

Un excursus storico delle relazioni fra Russia e Occidente per spiegare come si è arrivati dove si è oggi.


Il mondo è ossessionato dal millennium bug, fra poco lo sarà dal terrorismo islamico. Alla radio suonano “Otherside” dei RHCP e “Music” di Madonna. È il 26 marzo 2000. La Russia va al voto ed elegge Vladimir Putin Presidente. Comincia una nuova era, per la Russia e per il mondo intero. La prima presidenza Putin, e il successivo alternarsi di cariche di presidenza e premierato, cominciano ventuno anni fa.

I primi 2000 sono, per i rapporti che la Russia ha col mondo, anni ben lontani dalle odierne accuse rivolte a Putin di essere un assassino: per chi lo ricorda, il mood prevalente al di qua del “Muro” era di entusiasmo e ottimismo per l’elezione del nuovo Presidente che, dopo Yeltsin, avrebbe dato – ci si aspettava – una definitiva svolta in senso liberista (come se gli anni ‘90 non lo fossero stati sufficientemente) e liberale alla Federazione. 

Dal canto suo, Putin era un leader ben diverso da quello che oggi è stigmatizzato come nemico pubblico numero uno. È proprio nella sua declinazione di politica estera che giace la principale discrepanza fra il passato e l’attualità, mentre – al contrario – la politica interna sembra aver seguito un percorso sostanzialmente omogeneo, basato su pilastri tuttora vigenti, sebbene forse prossimi all’esaurimento storico.    

La politica estera russa viene spesso considerata un impianto monolitico immutabile e immutato. Ma l’approccio russo al resto del mondo ha tracciato un percorso vario e altalenante, che prima di giungere all’odierno, ormai – diciamolo – quasi pantomimico, conflitto a tutti i costi, ha visto momenti di apertura, di collaborazione e di speranza (per chi la auspica) per una convivenza pacifica col cosiddetto Occidente. 

Se le faccende interne sono ad oggi il principale bersaglio delle critiche e dei conseguenti attacchi (economici) alla Russia, dal punto di vista russo, per lungo tempo, il concetto di sviluppo o progresso in casa è dipeso dal riconoscimento e dall’approvazione esterni dello stesso, e ha viaggiato sui binari di una politica estera tesa ad ammorbidire e rendere fiducioso l’Occidente.

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Vent’anni fa, ci addormentammo con un Putin che chiacchierava al telefono con Clinton, oggi ci svegliamo con Biden che si ruzzola dall’Air Force One. Nel frattempo, ne è passata di acqua sotto i ponti.

Si comincia con il comune capro espiatorio, l’Islam armato, chiamiamolo così. Secondo Putin è sufficiente inquadrare la guerra al separatismo ceceno nell’ottica della lotta al terrorismo, per non incorrere in troppe critiche. Certo che la mano tesa a Bush nell’operazione afghana successiva all’11 settembre è stata cosa gradita a Washington, così come l’assoluzione post-facto che Putin fornisce a Bush per l’operazione in Iraq – «avrei fatto lo stesso». 

Nel quadro del tentativo – riuscito – di risollevare un’economia in frantumi, com’era quella del post-Yeltsin, e delle ben majeure force delle considerazioni di tipo energetico (ad esempio il Summit di Houston del 2002, con le promesse russe agli USA di rifornimenti talmente ingenti da poter costituire un’alternativa all’approvvigionamento OPEC), o di gesti pacificatori clamorosi, come l’abbandono del campo kosovaro e bosniaco nel 2003 da parte delle truppe russe (benché ancora oggi fra le consuete accuse russe ci sia il bombardamento NATO di Belgrado), USA e Russia si sopportano. 

L’Europa non abbocca ai proclami di avvicinamento proposti da Putin, che rifiuta l’abolizione dei visti di viaggio e cavalca passivamente l’onda “Nazioni Unite” riguardo alla succitata operazione irachena. 

Per quanto riguarda l’auto-percezione della Russia sullo scacchiere internazionale – concentrandoci specialmente sull’approccio all’area post-sovietica –  vediamo che quell’eurasianismo imperialista che oggi viene percepito come una costante della politica estera russa non è che una narrazione a-storicizzata, applicabile solo a fasi alterne, tra le quali non è possibile, senza dubbio, annoverare la prima fase di Putin. 

Una politica di questo genere è molto più riconducibile all’ex primo ministro Yevgeni Primakov che al primo Putin il quale, concentrato a ricostruire l’economia, cerca invece di presentare la Russia come attore internazionale europeo, ipso facto euro-atlantico. Ricordate i corteggiamenti alla NATO? Certo, questa membership è probabilmente sempre apparsa a tutti gli attori coinvolti un miraggio vagheggiato con in mente una certa public diplomacy, ma la cui esistenza stessa era significativa benché fine a sé stessa. 

Comunque, sebbene non nello stesso modo di Primakov, Putin era anche a quel tempo, ovviamente, sensibile alle questioni post-sovietiche, così come dimostrato dall’attenzione dedicata al CSTO, alle protratte negoziazioni per l’integrazione con la Bielorussia, e soprattutto all’istituzione dell’Unione Economica Eurasiatica.   

È proprio nella regione post-sovietica che si consuma la prima grave frattura fra Putin e il resto del mondo. È la Georgia, la Rivoluzione delle Rose. Oggi sappiamo bene cosa ne pensi Putin delle cosiddette “rivoluzioni colorate”, ma allora non era ancora chiaro che non solo il Caucaso del Nord entro i confini della Federazione fosse, nella mente del leader, luogo di giurisdizione russa, ma anche, oltre il limes, Paesi con una propria storia, un proprio Stato, una propria volontà di autodeterminazione. 

Saakashvili, non bisogna dimenticarlo, ha costituito per molto tempo il principale nonché unicamente fattivo oppositore internazionale di Putin, e con la Georgia che insorge contro il grande leader sovietico Shevarnadze, si apre la stagione aggressiva di Putin nello spazio post-sovietico. 

Non è necessario qui elencare le avventure di cui, negli anni a venire, il Presidente russo si sarebbe reso protagonista nel proprio “giardino di casa”. È necessario, invece, sottolineare che proprio tali avventure costituirono uno dei due ordini di fattori che avviarono il mutamento di Putin in politica estera. Secondo alcuni, infatti, furono proprio le “questioni interne” a lasciare che egli mostrasse la sua reale faccia; secondo altri lo provocarono talmente tanto da indurlo a un cambio di rotta.

L’altro aspetto del quale si era già parzialmente accennato prima, è quello economico. Le sanzioni non sono cosa nuova, ma vi è già traccia di lamenti russi in merito proprio in quelle telefonate con l’amministrazione americana risalenti ai primi 2000. Per non parlare dell’epopea dell’ingresso russo nel WTO, ottenuto dopo un processo estenuante, fatto di cavilli e assurdi ostruzionismi, il tutto mentre la Cina veniva accolta a braccia aperte nell’ambito salotto delle economie “per bene” del mondo. 

Un affronto mai superato, che ha pesato moltissimo nella strategia di Putin, costituendo probabilmente il fattore di Pareto che ha disilluso la Russia dall’idea di poter far parte del consesso “civile” costituito nell’idea occidentale di sostanziale unipolarità, e in quella russa dall’adesione a un’economia di mercato globalizzata dove si sarebbe potuti pervenire a una multipolarità non eccessivamente conflittuale.  

Quest’architettura impossibile conclude la coesistenza delle due Weltanschauungen con il crollo definitivo di ogni impalcatura di sicurezza concordata, nel momento tragico della morte dell’INF, il trattato sui missili a medio raggio. 

Persino il mancato rispetto del memorandum di Budapest da parte della Russia, nell’attacco all’Ucraina non ha costituito un tale venir meno dei “patti”, perché questi rimasero vigenti, benchè non cogenti. Ovvero, di fronte a Crimea e Donbass non si è verificata nessuna risposta militare ma, da allora, abbiamo assistito semplicemente a una continua escalation di punzecchiamenti, molto lontani dall’essere una risposta valida alle esuberanze russe – avversate nella pratica, è bene ricordarlo, solo dal leader turco Erdogan, nonché, a suo tempo, dal georgiano Saakashvili, che è forse conveniente aver rimosso dal “Wall of fame” degli eroi dell’Occidente. 

Un susseguirsi di ipocrisie che si concludono con i capricci tedeschi per Nord Stream 2, mentre l’Europa alle prese con la pandemia necessita di vaccini e non approva lo Sputnik, per motivi che a tutti paiono del tutto estranei a considerazioni di tipo sanitario.


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