Smart Working, rischi e opportunità a quasi un anno dalla pandemia

A causa della pandemia, lo smart working si è inserito prepotentemente nel nostro vivere quotidiano, portando benefici ma anche tanti interrogativi.


Proprio all’inizio della pandemia, in un nostro precedente articolo era stato sottolineato come lo smart working fosse una «misura di flessibilità organizzativa spazio-temporale che richiede un’efficace progettazione», poiché tale modalità offre «la possibilità di rinnovare il modo di concepire il lavoro e di adattarlo alle esigenze specifiche derivanti tanto dal mercato, quanto da fattori esterni». 

È indubbio che, da allora, sono passati molti mesi e lo strumento del lavoro agile è praticamente diventato una costante nella vita di ogni lavoratore e di ogni azienda, sia pubblica che privata. Questo ci ha portato anche a chiederci se, una volta sperimentato lo smart working, saremmo ritornati in ufficio tutti i giorni.

Oppure ancora se, dopo aver sperimentato la formazione online, saremmo riusciti a tornare in aula tutti i giorni. A questi interrogativi, che abbiamo lasciato senza risposta in un articolo precedente, si aggiungono oggi i quesiti relativi allo stile di vita verso cui lo smart working ci sta portando. E infine: gli spazi lavorativi saranno ancora gli stessi? 

Sono tutte domande a cui risulta difficile dare una risposta nel breve periodo, ma, sicuramente, andando ad analizzare alcuni studi e i dati inerenti a quello che potremmo anche definire l’anno dello smart working, sarà possibile delineare un quadro che ci dia un’idea della direzione verso cui ci stiamo muovendo, sia per quanto riguarda il privato che il pubblico impiego. In relazione a quest’ultimo, si può notare come il passaggio all’uso del lavoro agile sia stato determinante, anche se con una progressiva diminuzione.

Infatti, secondo i dati elaborati da Formez PA, si è passati da un picco del 64% a maggio al 46% ancora nel settembre scorso, quando sono entrate in vigore le norme del Decreto Rilancio, secondo cui il lavoro agile non è più la modalità organizzativa ordinaria, come nella prima fase acuta dell’emergenza pandemica. Le amministrazioni che lo hanno adottato sono state ben 1.537 (circa 300mila i dipendenti rappresentati), per un periodo che va da gennaio al 15 settembre scorso, proprio il giorno in cui il lavoro agile ha smesso di essere la soluzione organizzativa ordinaria. 

Nonostante ciò, però, si può ragionevolmente pensare che anche in futuro le amministrazioni pubbliche faranno ricorso allo smart working. Spostandoci sul versante del privato, possiamo riscontrare come il lavoro agile abbia apportato sia dei benefici, ma soprattutto abbia posto degli interrogativi su quelli che possiamo definire gli  “effetti collaterali” dell’utilizzo dello smart working.

smart working

Andando con ordine, secondo i dati della Banca d’Italia, nel rapporto “Il lavoro da remoto in Italia durante la pandemia: i lavoratori del settore privato” con lo smart working c’è stato il -10% di ricorso alla cassa integrazione, la probabilità di cercare un nuovo impiego è diminuita del 2,3%, il -3% di probabilità di perdere il lavoro attuale e, infine, una delle notizie più interessanti, il +6% della retribuzione mensile. 

Torcha, punto di riferimento per l’approfondimento sui social media che ha come base principale Instagram, ha riportato i dati di due indagini, una condotta da Microsoft, che si colloca sulla scia delle analisi fatte dalla Banca d’Italia, per cui l’87% degli smart workers ad ottobre ha riscontrato una produttività pari o superiore a quella prima del lockdown; e un’altra realizzata dall’Università Cattolica, che restituisce invece un quadro completamente opposto. 

Gli studi della Cattolica dimostrano, infatti, come il lavoro agile abbia effetti controversi nel lungo periodo. Per il 67% dei docenti universitari, la propria vita personale è stata invasa dalle tecnologie utilizzate per lavorare, il 65% si è dedicato al lavoro anche in giornate non lavorative e il 66% degli intervistati ha sperimentato frequenti tensioni muscolari. Inoltre, il 61% ha mostrato sbalzi d’umore e irritabilità improvvisa e, infine, il 55% difficoltà a prendere sonno.

Questo dimostra come, da un lato, sembra che lo smart working abbia sicuramente degli effetti positivi, ma, dall’altro, incide non poco sulla salute delle persone. Su questi aspetti, bisogna però fare un’analisi più approfondita. Infatti, nonostante i dati mostrino come effettivamente ci sia stato un aumento della produttività con un aumento degli stipendi (6% circa), non è da sottovalutare il contesto in cui questi dati sono stati considerati. 

Come ha sottolineato Savino Balzano in un articolo de Il Sole 24 ore uscito lo scorso 25 gennaio, questa conclusione risulta essere poco convincente in quanto parte da un presupposto discutibile, quello per cui a fronte di un incremento retributivo medio del 6%, l’incremento di ore lavorate sia stato della stessa percentuale.

Infatti, chi solitamente si confronta con le lavoratrici e i lavoratori, sa benissimo che la realtà è assai diversa da quella citata ed emerge assillante la lamentela circa l’impossibilità di delimitare nettamente il tempo da dedicare al lavoro e quello riservato alla cura di sé. Un’indagine condotta da Linkedin si colloca proprio sulla stessa lunghezza d’onda di quella della Cattolica, in una posizione diametralmente opposta a quella della Banca d’Italia e Microsoft. 

Anche questa indagine conferma che, tra gli intervistati, il 46% afferma di sentirsi più ansioso e stressato per il proprio lavoro rispetto a prima, ma anche di lavorare di più; il 48% ammette di lavorare almeno un’ora in più al giorno (il che equivale ad almeno 20 ore – quasi 3 giorni – in più al mese); il 16% si sente preoccupato che il datore di lavoro lo licenzi; mentre il 19% si sente ansioso e si chiede se la propria azienda sopravviverà. 

Tutti questi dati mettono in risalto come il lavoro a distanza abbia fatto emergere un problema che si intravedeva in lontananza, ma che adesso si dimostra essere più vicino: la perdita di confini tra il tempo del lavoro ed il tempo libero, il cosiddetto Burnout.

Si tratta della difficoltà a “staccare la spina” da lavoro, che richiama al tanto discusso diritto alla disconnessione, con conseguenze psicofisiche di non poco conto. È stata Bloomberg ad aver fatto alcuni conti: in media, la giornata lavorativa dura da una a tre ore in più, si fanno più riunioni e si mandano anche più mail, almeno 8 al giorno fuori dall’orario di lavoro. Anche Forbes aggiunge la sua, sottolineando come questo non sia positivo neppure per i datori di lavoro in relazione alla gestione delle chiamate e delle mail. 

Infatti, c’è chi non riesce mai ad arrivare in tempo al telefono, chi non risponde alle mail o rimanda sempre una consegna poiché, probabilmente sopraffatto dal lavoro, è esausto. In un clima sempre più stressante, quindi, può verificarsi nel tempo un progressivo esaurimento, con conseguenze in primis sulla salute della persona e, successivamente, sulla produttività della stessa, su cui inciderà questo moto perpetuo lavorativo. Secondo una ricerca di Monster.com, soffrono di burnout due lavoratori su tre, ossia il 69% dei lavoratori, il 20% in più rispetto ai mesi che hanno preceduto il lockdown. Il tutto nasce dall’incapacità di disconnettersi dal lavoro, di avere orari precisi come quando si andava in ufficio.

Come mostrano tutti questi studi, lo smart working, se non viene ben regolamentato ed usato in modo equilibrato, sembra possa portare a conseguenze negative sulla salute dei lavoratori più serie del previsto. Oltre a questo, lo smart working ha completamente rivoluzionato alcuni settori, come le mense e i servizi per gli uffici, oltre ad avere un notevole impatto sugli immobili, che era un settore in piena crescita prima della pandemia.

Nonostante ciò, però, in futuro, solo il 6% delle imprese farà a meno dello smart working e a dichiararlo è un report dell’Osservatorio Imprese Lavoro Inaz e Business International, presentato per la terza edizione del sondaggio Future of Work 2020, rivolto alle direzioni risorse umane delle imprese italiane. Ciò che emerge è che la percentuale di aziende che crede fermamente nelle potenzialità del lavoro a distanza supera il 50%, e il 60% delle aziende individua nel lavoro da casa l’iniziativa più valida su cui investire per far crescere l’impresa. 

A conferma di questa tendenza, si colloca al primo posto la digitalizzazione nei futuri investimenti delle aziende. In virtù di questo, le aziende – non solo nazionali ma anche di altri Paesi – stanno pensando di riorganizzare la postazione lavorativa, proprio per questo nuovo modo di lavorare.

Partendo dal recente sondaggio della piattaforma di servizi freelance Upwork, negli Stati Uniti, ad esempio, il 27% del lavoro nel 2021 sarà svolto in remoto. Prima della pandemia, il mercato immobiliare nell’area di San Francisco era il più caro di tutto il Paese, New York inclusa. Ora, secondo una stima del gruppo immobiliare commerciale CBRE, la percentuale di aree ed edifici sfitti a San Francisco è di oltre il 16%, la più alta mai registrata. 

Gli spazi di lavoro sono stati ripensati e i progettisti destinati alle grandi aziende si sono trovati di fronte alla necessità di rendere compatibili quegli spazi con determinati protocolli di sicurezza, contraddicendo apertamente i principi che avevano ispirato i progettisti stessi: anziché avvicinare le persone nei team di lavoro, serviva adesso tenerle distanti. Ai progettisti era chiesto di ripensare gli spazi in modo da facilitare la pulizia delle superfici, il distanziamento fisico e il ricambio d’aria.

Continuando, ai dipendenti di Twitter è stata offerta la possibilità di lavorare da casa «per sempre», se lo desiderano, anche dopo l’emergenza attuale. Facebook – che ha 80 uffici in tutto il mondo e circa 56mila dipendenti, di cui più di 4mila assunti nel 2020 – ha detto di aspettarsi che, entro il 2030, metà del lavoro dell’azienda sarà in remoto. E intanto, a settembre scorso, ha comprato per circa 300 milioni di euro un complesso immobiliare da 37mila metri quadrati a Bellevue (Washington), ceduto dall’azienda americana di abbigliamento sportivo REI.

Infine, Microsoft consentirà di lavorare da casa fino alla prossima estate a quasi tutti i suoi dipendenti e, nel frattempo, sta lavorando all’estensione del contratto immobiliare multimiliardario relativo al suo campus a Redmond (Washington). Lo smart working sembra ormai essere una pietra miliare di questo nuovo secolo (date anche le nuove sfide che ci attendono) e,  per questo,  alcuni Stati come la Germania pensano addirittura di agevolarlo attraverso una tassazione più blanda per chi lavora da casa. 

Concludendo, ciò che si può aggiungere è che ogni novità deve essere sempre osservata sotto il duplice aspetto dell’opportunità e del rischio che ne può derivare. Lo smart working non è di certo una novità, poiché la sua esistenza era presente prima della pandemia; sono novità, invece, i suoi effetti che, come abbiamo potuto constatare, sono tanto positivi quanto negativi. Essendo, però, ormai una realtà del nostro tempo, non resta che cercare un equilibrio affinché si possano sfruttare le potenzialità dello smart working, che sono tante, evitandone gli effetti più dannosi. Ai governi, alle aziende e ai singoli studiosi il compito di trovarlo.


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