Proteste in Tunisia, la “generazione sbagliata” scende in piazza

A dieci anni dalla rivoluzione che portò alla caduta del regime di Ben Ali, riesplodono le proteste in Tunisia. Nelle piazze, una nuova generazione di manifestanti chiede riforme, diritti e tutele.


Millantato come l’unico esperimento rivoluzionario riuscito, la Tunisia è ancora lontana dall’ottenere le rivendicazioni che dieci anni fa, nel 2011 – anno della rivoluzione tunisina – spinsero migliaia di persone a scendere in piazza, portando alla caduta del regime di Ben Ali. Le frasi urlate nelle strade del Paese – “khobz, horia, karama watania” (pane, libertà, dignità nazionale) – tornano a farsi sentire, dieci anni dopo, nella manifestazioni cominciate lo scorso 14 gennaio.

A nulla sono valsi i quattro giorni di lockdown imposti in occasione del decimo anniversario della rivoluzione. In risposta a questa scelta, da molti percepita come un’evidente manovra politica per evitare che il popolo tornasse in strada, i cittadini e le cittadine della Tunisia riprendono la lotta, desiderosi di riforme, cambiamenti, diritti e tutele.

proteste in tunisia

Storicamente, è nei governatorati dimenticati dal governo nazionale, quelli a sud del Paese o nelle zone interne, che sono iniziate le proteste. Lì, dove la marginalizzazione e le disuguaglianze sociali, economiche, politiche, sanitarie, educative sono più forti. Oggi, invece, il movimento di sollevazione sociale parte e divampa proprio dai quartieri popolari della capitale. A dimostrare il fatto che la crisi socio-economica colpisce anche il cuore nevralgico del Paese, dove solitamente è concentrata la ricchezza.

Lì, attraverso cortei notturni in violazione del coprifuoco imposto ormai da mesi, i manifestanti hanno espresso tutta la loro rabbia. Quelli che volevano dipingerli come vandali hanno però omesso di ricordare che si tratta di una fascia di popolazione estremamente colpita dalla crisi socio-economica, dove il tasso di disoccupazione – a livello nazionale ormai al 15,3% – può raggiungere picchi del 30%, più del 50% dell’economia è informale e in cui l’unica prospettiva sembra essere quella di emigrare.

I metodi violenti rappresentano probabilmente la necessità, e forse l’unico mezzo, per farsi sentire e per farsi vedere. Per reclamare uno stato di diritto e maggiori garanzie. Non è la voglia di trasgressione o di vandalismo che muove le masse, ma la fame e la mancanza di prospettive.

Cominciate nei quartieri popolari, le manifestazioni sono divampate in tutto il Paese, dall’estremo sud di Tataouine, dirompendo nel cuore nevralgico della capitale, da Avenue Habib Bourguiba al Bardo.

A partecipare però non sono solo coloro che hanno vissuto sulla loro pelle i soprusi del regime ma anche chi allora non c’era ed oggi vuol far sentire la propria voce. Al jil al khata (الجيل الخطأ), la “generazione sbagliata”, si fanno chiamare: coloro che, accusati di nullafacenza, vandalismo e pigrizia, sentono – oggi più che mai – il peso di un sistema non riformato, a-democratico, non assistenziale, scarno di tutele e opportunità. Un sistema che si serve ancora delle misure di uno stato di emergenza costante per abusare e reprimere.

Un cartello dice: «Vi siete imbattuti nella generazione sbagliata». Una nuova generazione che oggi domina le manifestazioni e che rivendica una nuova identità fisica, artistica, culturale e politica. Una generazione che non si sente più rappresentata dall’apparato politico e che al disinteresse e all’apatia politica risponde con forza. «La strada ci appartiene», dicono.

Agli obiettivi delle rivendicazioni iniziali – povertà, disoccupazione, corruzione, economia stagnante – si aggiunge oggi la pressione nei confronti delle forze armate che con intercettazioni, minacce, arresti arbitrari, perquisizioni e prelevamenti a sorpresa, hanno portato all’arresto di più di 1500 tunisini e tunisine in sole due settimane. Di questi, circa il 30% sono minorenni. 

Anche loro, nonostante tutto, nel vortice del sistema penitenziario tunisino che, sebbene notevolmente riformato dal 2011, continua ad essere il buco nero dell’assistenza legale. Lì, all’oscuro dai cameramen e dai fotoreporter internazionali, atroci torture e ingiustizie continuano ad essere commesse. Le 48 ore di trattenimento legittimo nelle mani della polizia diventano un calvario di atrocità: colpiti ai genitali, scherniti nella loro nudità, umiliati, offesi, derisi, minacciati loro e i familiari.

È così che l’amministrazione tunisina cerca di placare il clima di protesta e reprimere il dissenso. Gli agenti in borghese alle manifestazioni, come in una caccia all’uomo, tentano di riprendere quanti più volti possibili, per poi identificarli, individuarli, minacciarli e, se tutto ciò non è stato sufficiente, arrestarli. L’accusa? Poco importa. L’obiettivo non è infliggere condanne ma far paura. E qui, le carceri fanno tremare.

La dura repressione delle manifestazioni è diventata, da ultimo, il pretesto per inibire la libertà di espressione ed emanare condanne sproporzionate: 30 anni di carcere è la condanna arrivata lo scorso 21 gennaio dal Tribunale di prima istanza del Kef per tre ragazzi accusati di consumo di droga.

La violenza da parte delle forze di sicurezza contro manifestanti, attivisti e attiviste mostra la natura securitaria della risposta dello stato tunisino che, incapace di dialogare, utilizza ancora metodi da regime per imporsi.

Gli arresti, che volevano essere un metodo efficace per reprimere il dissenso di strada, hanno invece aumentato la rabbia. «Occorre mostrare al potere e al potere repressivo che questa volta non abbiamo paura. Pensano che possono intimidirci usando lo stesso potere repressivo di Ben Ali. Ma noi mostriamo che non è così»: queste le parole di Mayssa, giovane e brillante studentessa e attivista tunisina.